Mattia Cipolla, “Il secco fogliame”
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Era fine maggio del 1944 e l’aria era pesante già da un po’. Ormai si era sparsa la voce che qualcosa stava accadendo, non poteva essere altrimenti: le pallide voci delle persone,in qualunque angolo, continuavano ad altisonare come se stesse per piombare qualcosa dal cielo. Non che questo avesse particolare ripercussioni sulla vita di tutti i giorni: era ogni giorno sempre la stessa macchinosa giornata ripetuta all’infinito, ed essa era fatta di tutto un elenco di cose che avevano il semplice fine di non farti morire. La fame era intrinseca: questo Giorgyi lo sapeva, e ormai si era fatto, nel suo piccolo, un esperto di sopravvivenza.
Nel ghetto ebreo di Veszprèm lui era tra i più grandi dei più piccoli, in quell’età dove non si è né carne né pesce, a metà tra infanzia e adolescenza. Non era sempre stato lì: ricordava, seppur soffusamente, la casa dove abitava, colma di esperienze, litigate con Snepek, ma anche sorrisi e carezze. Forse non era molto più grande di quella dove abitava ora, in effetti le dimensioni potevano anche essere le solite, ma non era quello che mancava alla nuova abitazione.
Non era quello che desiderava, ma Giorgyi si era letteralmente reso grande con la vita del ghetto. Sapeva sfruttare la propria età nei modi giusti, per raccattare un pezzo di pane di qua, una vite di là, e con gli scambi riusciva a tirare sempre fuori qualcosa di buono o di utile. La sua particolarità era che aveva beneficiato, da piccolo, di qualche lezione a casa, e così era in grado di leggere e scrivere, diventando un prezioso aiuto per gli adulti analfabeti del quartiere , e racimolando ogni tanto qualcosa da mangiare. Certo, il cibo c’era, ma sicuramente non a sufficienza per nutrire due adulti, lui e il fratellino di 4 anni.
Solo nell’ultimo periodo gli abitanti del ghetto sembravano più restii a discorrere con Giorgyi: perfino il vecchio Prot, che si era sempre dimostrato piuttosto disponibile, e che aveva più volte intrattenuto lui e altri ragazzi con le sue storie da marinaio, adesso era sempre bagnato dalla fretta e non ne voleva sapere. “Non è più il tempo, Giorgyi” ma perché? Non era successo un bel niente, di questo Giorgyi ne era sicuro, niente era cambiato a Veszprèm e lui lo vedeva con i suoi occhi. Sempre le stesse facce, le stesse abitudini e le stesse bastonate delle SS. “Sarà impazzito, aveva pensato”, ed era tornato a parlare di affari con Imre. C’erano molte storie, di ghetti svuotati, degli abitanti scomparsi e mai più visti, ma non era cosa che toccava a loro: la situazione si era mantenuta più o meno la stessa e per fortuna era sempre toccato ad altri. Le voci di treni partiti con persone dentro e di campi di lavoro per ebrei erano create forse solo per spaventare, e poi era da aprile che si sentivano, e non era successo niente. La cittadina di Veszprem aveva circa 30.000 abitanti ed era famosa soltanto per l’Antica Università Pannonica, e poi nient’altro. Aveva visto episodi di criminalità, omicidi e maltrattamenti, ma in linea di massima la condizione era quella della sopportazione silenziosa, in una “convivenza” tra ebrei e ariani relativamente stabile. Certo, non obbedire al comando di una SS portava automaticamente all’essere frustrati e picchiati in pubblica piazza, ma erano pochi i casi di violenze ingiustificate (anche se spesso lo erano gli stessi ordini). Si, Giorgyi era stato relativamente fortunato, non sapeva nemmeno lontanamente cosa stava accadendo ai ragazzi come lui nell’Ungheria nordorientale e nella Rutenia carpatica, e l’abitudine aveva quasi reso sopportabile per lui una condizione in realtà di per sé disumana. Ma la libertà per Giorgyi era un concetto astratto, mai realmente sperimentato: era lì da molto tempo ormai e una vita diversa sembrava solamente più strana.
Era il 10 giugno 1944 e Giorgyi aveva passato la nebbiosa mattinata a giocare al gioco del tondo Shzepa (un gioco che consisteva nel colpire un cerchio nero con un legno un maggior numero di volte possibile) e poco altro. Snepek era stato particolarmente noioso oggi, e Giorgyi non ce la faceva più a stare in casa, tra i soliti consunti ciottoli e le solite raccomandazioni unite a compiti. Non che la storia fosse particolarmente diversa fuori: ormai sapeva a memoria ogni angolo della zona e il ghetto non aveva quasi più segreti per lui: la sua scaltrezza lo aveva portato a capire abitudini, caratteri e intenti, oltre che strade e vicoli. Fu però rovistando in una cassetta di legno trovata in terra quella sera che trovò qualcosa che lo colpì molto, nella sua incapacità di apprezzare beni astratti, prediligendo quelli concreti, rivendibili o commestibili: nella cassetta, oltre alle lamette, alla schiuma da barba e a un piccolo fermacarte d’argento (che fortuna: era un oggetto che poteva essere facilmente venduto) c’era uno sgualcito e malridotto pezzo di carta. Sopra vi era recitata una poesia, di un tal Ady Endre che Giorgyi non aveva mai sentito né nominare né altro. La poesia si chiamava “Nozze di sparvieri sul fogliame secco”, era ungherese come lui, composta nel 1906, e recitava:
Ci avviamo verso l’Autunno, rincorrendoci squittendo, piangendo, due sparvieri dalle ali stanche.
L’Estate ormai ha nuovi padroni, sbattono le ali i giovani astori, e combattono battaglie di baci.
Voliamo via dall’Estate, cacciati,
ci fermiamo nell’Autunno, da qualche parte, con piume alzate, innamorati.
Sono le nostre ultime nozze:
ci scaviamo nella carne,
e cadiamo morti sul secco fogliame.
La portò con sé a casa. La cena non era molto invitante, ma almeno era una buona occasione per discorrere con un po’ più tranquillità col papà e con la mamma. Papà e mamma erano sempre stanchi, ma sulle loro guance un sorriso rivolto verso i figli riusciva sempre ad affiorare, seppur malinconico, e Giorgyi sapeva bene gli immani sforzi che facevano per far vivere e mangiare lui e Snepek. Snepek, dal canto suo, sapeva essere antipatico, ma era bellissimo giocare con lui, e presto Giorgyi gli avrebbe sicuramente insegnato tutti i frutti degli anni di esperienza nel ghetto, così almeno sarebbe diventato come lui, e chissà, “Forse lo potrò anche usare come aiutante” pensava gongolandosi della propria furbizia. Arrivò l’ora di dormire e, prima di spegnere la luce, l’occhio gli cadde nuovamente sulla poesia.
Fine
In realtà, questa non è altro che una storia incompleta.
I fatti storici, imparziali nella loro oggettività, ci dicono che semplicemente Veszprèm, con il suo ghetto ebreo e il suo piccolo Giorgyi, appartenevano alla Zona III. La deportazione degli ebrei ungheresi, la più grande comunità ebrea ancora esistente (circa 800.000 persone) era stata organizzata dalla folle quanto precisa macchina nazista in Zone: l’Ungheria era stata divisa in cinque zone più la capitale, e i treni sarebbero partiti per primi dalle Zone al confine con la Russia (ad esempio la sopracitata Rutenia, appartenente alla Zona I) per ovvi motivi militari, e poi, in ordine, da tutte le altre.
E sempre i fatti storici ci dicono che semplicemente il giorno 11 giugno 1944 era stato deciso come inizio per lo sgombero della Zona III.
Nella mia mente esiste un continuo alla storia di Giorgyi, così come a quella del fratellino Snepek, dai capelli mori così diversi da quelli del fratello maggiore, ma anche alla storia di Prot, di Imre e di tanti altri personaggi che hanno fatto parte di questa storia, anche se non inseriti, ma solo nei miei pensieri. Ma non scriverò un continuo, perché questa è una storia con un inizio ma non con una fine, e personalmente la ritengo molto più efficace così, poiché sappiamo cosà ne sarà di Giorgyi, e del fratellino di 4 anni, e del padre, e della madre, e degli altri.
In realtà, questa non è altro che una storia incompleta, che ha un inizio e senza fine, così come i suoi protagonisti, e così come tutte le persone vittime della follia nazista.
Riccardo Farinella, “L’importanza di essere consapevoli”
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” Leggendo le loro parole,
vedevo con i loro occhi,
toccavo con le loro mani:
ero con loro, tra i morti.
Parlavo con i loro cuori.”
Ritengo non sia sufficiente solo “sapere” i fatti, guardare film e documentari, o leggere le testimonianze di chi ha vissuto quell’orrore: sento il bisogno di capire meglio, di vedere con i miei occhi quei luoghi affinché non si tratti solo di una conoscenza “astratta”. Vorrei poter entrare attraverso quei cancelli, calpestare lo stesso suolo su cui sono passate migliaia di persone prima di me, soggiogati dalla follia sterminatrice di un regime razzista, per provare a percepire ciò che quelle povere persone hanno provato, e ad ogni fascio d’erba schiacciato sentire riecheggiare i loro pensieri. Non mi piace provare dolore, non lo faccio per questo, ma credo che rendersi conto delle privazioni e della sofferenza delle persone internate nei campi di sterminio possa far meglio apprezzare a noi tutto ciò che abbiamo di bello nella vita: la libertà, l’amore, la salute e anche i beni materiali; non solo per sentirci grati e fortunati, ma allo stesso tempo per apprezzare tali valori e imparare a guadagnarceli e difenderli, senza darli per scontato nostri di diritto.
” è accaduto, e può avvenire di nuovo, per questo bisogna conoscere e capire il più possibile… ”
Queste parole fanno davvero riflettere e aprono una porta di orrori e brutalità, che molti preferirebbero ignorare facendo finta sia chiusa; questi sono orrori che conosciamo, o almeno, dovremmo conoscere molto bene e che assolutamente non dobbiamo considerare scomparsi per sempre.
Come in questi ultimi anni la Germania ha scandagliato nel suo passato attraverso la storiografia per riportare a galla la verità, e prendere così le distanze dalle brutalità commesse facendosi una sorta di esame di coscienza, allo stesso modo è mia intenzione fare: comprendere e accettare le dinamiche che hanno portato ad atti disumani su larga scala, e interiorizzandole ( per certi versi) al contempo, per poter essere in grado di riconoscerle e combatterle efficacemente in caso dovessero ripresentarsi. impedendo di aprire le porte, come nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, alla più totale rabbia e all’odio nei confronti del diverso, una rabbia terribile perché fredda, gelida, come gli occhi di chi commetteva tali atrocità.
” Che nel cielo muto
risuonino le mie tacite parole,
e che quell’odio acuto
si dissolva ai raggi del sole.
Poiché unica via per la pace
sono consapevolezza, perdono, e amore,
unico mezzo efficace,
la volontà dei popoli di unirsi in un sol cuore. ”
Manuela Mancini, “Promemoria di Auschwitz”
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“…dopo averci tolto tutto, dai vestiti all’identità, ci portavano nelle baracche, cento uomini in uno spazio strutturato per venti. Che persone crudeli quei tedeschi, non si facevano scrupoli nemmeno davanti ai bambini, eravamo tutti costretti al lavoro, con poco cibo e poche ore di sonno”. Oggi è domenica e tutta la famiglia si è riunita a casa dei nonni e naturalmente non poteva mancare il racconto del nonno nei tempi di guerra. I miei cugini e io rimaniamo sempre in silenzio ad ascoltarlo, perché anche dopo anni si sente sempre il dolore nelle sue parole, come se quei ricordi fossero indelebili dalla sua mente. Ora ci stiamo avvicinando al Natale e lui si intristisce al ricordo di quel Natale passato ad Auschwitz, un giorno come gli altri lì dentro isolati da tutto, lui fu messo alla postazione dove i deportati venivano spogliati e per questo si sentì fortunato all’ora perché non era un lavoro fisicamente sfiancante ma allo stesso tempo si sente in colpa ancora adesso per aver dovuto fare quelle cose ai suoi simili, uomini come lui. Questo concetto dell’uguaglianza a quei tempi sembrava sconosciuto per le persone seguaci di idee razziste, secondo le quali non esiste “l’essere umano” ma esistono diversi tipi di uomo dipendentemente dal colore di pelle, dalla provenienza, dalla religione, tutte cose che formano l’idea di razza, quindi troviamo un’organizzazione piramidale dei diritti dell’uomo dipendentemente dalle proprie credenze e le proprie origini. Guardandomi intorno oggi, in un diverso millennio, evoluto sia scientificamente che politicamente, purtroppo vedo che alcuni concetti hanno lasciato la loro impronta e nonostante il tempo si fanno ancora le differenze tra esseri umani, per lo status sociale, per la situazione economica o per altri fattori. La storia della famiglia del mio amico Omar ne è un buon esempio. Sono venuti qua dalla Tunisia alla ricerca di una vita migliore, senza guerre che mettevano a rischio la loro vita ogni giorno. Qua non hanno trovato la vita perfetta ma sono riusciti almeno ad avere un po’ di tranquillità. Suo padre ha trovato lavoro presso una ditta edile che gli permette di portare a casa soldi tutti i mesi, anche se non è stato semplice un po’ di tempo fa trovare una ditta che lo accogliesse a causa dei pregiudizi: la pelle è scura e viene dall’Africa e ciò, seguendo gli stereotipi, vuol dire che è un uomo inaffidabile. A volte rimango sconvolta dall’ignoranza di alcune persone che ancora non capiscono che nonostante noi esseri umani possiamo avere diversità fisiche e fisionomiche dentro siamo tutti uguali, abbiamo gli organi allo stesso posto e un cervello e una mente che ci permettono di pensare, tutti nella stessa modalità, è certo che ognuno ha le sue credenze e la sua cultura ma il bene e il male si possono trovare ovunque, in qualsiasi paese. Mi ha fatto pensare anche il fatto che durante la seconda guerra mondiale furono anche gli scienziati a trovare teorie per giustificare e affermare l’inferiorità degli ebrei grazie alla forma del cranio ed altre assurdità, uomini di scienza che si sono fatti “trascinare” dalle idee di altri uomini che non avevano prove concrete per affermare cose del genere.
Ogni volta che ascolto il nonno provo a immaginarmi tutte le sensazioni e le emozioni che ha potuto provare in ogni momento. Per qualsiasi istante vissuto lì dentro mi viene sempre in mente la disperazione, il terrore di morire da un momento all’altro ma la peggiore è la mancanza di speranza di non riuscire ad uscire e non poter più essere una persona libera; senza libertà di pensiero e parola siamo solo dei “pezzi di carne” messi sul mondo senza uno scopo, vivendo una vita inutile.
Un po’ di tempo fa parlai alla mia famiglia del fatto che mi sarebbe piaciuto visitare un campo di concentramento, sono rimasti tutti un po’ perplessi e il nonno ha incominciato a scuotere la testa e a dirmi che “quei posti maledetti devono rimare sepolti solo nella memoria di chi l’ha vissuto e certe cose si possono solo raccontare”. Allora ho cercato di spiegare il perché di questo mio desiderio e penso che tutti dovrebbero andarci almeno una volta nella vita e informarsi a fondo su ogni procedimento che veniva svolto, per rendersi conto della crudeltà di certe persone senza scrupoli e secondo me anche senza pensieri e personalità per riuscire a ragionare in modo adeguato e capire con che facilità la mente umana si lascia influenzare portando un granello di sabbia ad espandersi fino a diventare una montagna. Bisogna imparare e apprendere il più possibile da certe esperienze, mi piacerebbe “ascoltare” le mie emozioni e le sensazioni una volta dentro ad un posto del genere e scoprire cosa può scaturire un’esperienza del genere.
Il nonno si è tranquillizzato e la mia famiglia mi ha detto che ci possiamo pensare ad una gita nei dintorni di Cracovia.
Matilde Lucchesi, “QuestI sono un uomo”
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« Sia sul piano scientifico che su quello morale, venni dunque gradualmente avvicinandomi a quella verità, la cui parziale scoperta m’ha poi condotto a un così tremendo naufragio: l’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due. » ( Tratto da “Lo strano caso di Dr Jekyll e Mr Hyde” di R.L. Stevenson)
R.L. Stevenson è uno dei più convinti sostenitori della dualità dell’uomo e ce lo testimonia la sua opera “Lo strano caso di Dr Jekyll e Mr Hyde”. Jeckyll è l’emblema dell’uomo per bene vittoriano, un intellettuale, ben pensante, eticamente e politicamente corretto. Dr Jekyll però commette l’errore, in questo suo modo di vivere, di reprimere ogni sfumatura di ciò che è reputato cattivo considerandolo estraneo ed estremamente lontano da lui. Questo non farà altro che potenziare la forza opposta a quella che lui esalta, che è però ben viva e presente in lui come in tutti gli uomini; che inevitabilmente esploderà e nello svolgimento della vicenda prenderà il sopravvento. E’ questo che porterà Dr Jeckyll a concludere ciò che affermato nella citazione. L’errore commesso da Dr Jekyll è quello di aver considerato da sempre l’uomo come un essere esclusivamente buono ( l’aggettivo “buono” va inteso secondo la definizione che se ne dava nella società vittoriana in cui Stevenson e anche il suo personaggio letterario, vivevano) reprimendo e allo stesso tempo rinforzando, la parte opposta a questa visione. Come “Lo strano caso di Dr Jekyll e Mr Hyde “ è in letteratura l’esempio più rappresentativo della duplice natura dell’uomo, nella storia questo ruolo è incarnato dall’episodio dell’ Olocausto, dove persone che probabilmente rappresentavano il concetto di “brava persona” vigente in società ( Dr Jekyll ) , erano simultaneamente aguzzini e metodici sterminatori di loro simili ( Mr Hyde ). In quest’ottica è importante riconoscere che tutti possiamo essere sia vittima sia carnefice e che non esiste un uomo buono o un uomo cattivo ma che coesistono il buono e il cattivo nell’uomo. Ecco come diventi fondamentale conoscere la storia minuziosamente per capire come uomini comuni abbiano permesso che si realizzasse un orrore come l’Olocausto.
“È accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo…” Primo Levi
Yolanda Isabella von Kier, “Ti chiedo perdono”
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Cara mamma, ormai non soffro più ma ho avuto tanta paura…
mi mancava starti vicino, sentirmi protetta e mi sarebbe piaciuto poter ricambiare le tue attenzioni un giorno quando sarei stata più grande, mi sarebbe piaciuto vederti felice con un nipotino. Purtroppo per tutto questo ormai è tardi, mi ha portata via la morte e quando è arrivata, forse mi sono sentita sollevata. Alcuni ritengono che sia stato per il bene della nazione, che in realtà sia stata tutta un’esagerazione, ma per me sono stati l’odio, la disumanità, l’insanità mentale e il carattere debole di alcuni.
Mi ricordo bene dell’ultimo giorno in cui ti ho vista, eravamo in casa e avevamo paura perché in paese dicevano che sarebbero arrivati i tedeschi e che avrebbero portato via chiunque. Da poco era sorto il sole e sentimmo bussare alla porta forte, con violenza. “Aufmachen, aufmachen!”, papà si avvicinò alla porta per aprire perché era l’unica cosa da fare mentre noi eravamo nascoste in camera. Tu, Isabel ed io ci abbracciavamo forte mentre con irruenza entrarono due uomini che portarono via tutti noi. Poco dopo ci portarono alla stazione dove ci fecero lasciare tutto e non avrei mai pensato che di lì a poco non ti avrei più rivista, cara mamma. Non solo mi separarono da te, ma anche da Isa ed ero tanto preoccupata per dove l’avrebbero portata così tanto gracile e piccola. Mi trascinarono via dicendo che “Kinder und Frauen“ dovessero stare separate. Iniziammo un lungo viaggio, eravamo in tanti, tutti senza genitori, terrorizzati dai rumori del treno e gli urli di chi ci aveva portati via. Non sapevamo molto, anzi nulla di dove ci avrebbero portati. Solo dopo settimane seppi che fine aveva fatto Isa e forse sarei stata meglio senza saperlo. Di lì a poco saremmo arrivati all’inferno dove saremmo rimasti per “arbeiten” e non sapevamo perché ma quando ad alcuni di noi dissero, che li avrebbero dovuti seguire per rivedere le proprie mamme non tornarono più. Io avevo paura, ti volevo rivedere ma non mi fidavo, così decisi di non andare e forse feci bene o forse no perché così facendo non evitavo la morte, ne ritardavo solo l’arrivo.
Sono stati mesi difficili, al freddo senza cibo, non so se tremassi più per la paura o per il freddo, per la solitudine o per il dolore. D’inverno in Polonia faceva freddo e noi pur di avere un pezzetto di pane in più da mettere sotto ai denti eravamo disposti a tutto. Non eravamo scalzi perché avevamo degli zoccoletti di legno ma facevano male ed erano freddi. Eravamo pieni di piaghe, non sai che avrei fatto per un paio di calzini.
Non passò giorno in cui non pensassi a te, chissà se eri in un posto come il mio, chissà se ti avrei più rivista. Pensavo ad Isabel e a cosa doveva aver subito da quegli uomini che la portarono con sé dopo essere inciampata addosso a uno di loro. Speravo tanto di tornare tra le tue braccia, ma purtroppo non riuscirono a passare tre mesi che persi la vita. Mi dissero che avrei dovuto fare una doccia perché eravamo pieni di pidocchi e così decisi di seguirli. In realtà mi fidavo tanto quanto non lo avessi fatto quando mi avevano detto di seguirli per venire da te, ma forse non ce la facevo più, forse era arrivato il momento di lasciare questo posto per sempre.
Morii asfissiata con altri 120 bambini che quanto me speravano, ma non sapevano bene in cosa. Volevo chiederti scusa per questo, per tutti quei bambini che come me non ce l’hanno fatta, mi hai donato la vita e ne ho goduto per così poco.
Vorrei dedicare questo pensiero a una persona a me molto cara, ovvero mio nonno. Chiunque leggendolo penserebbe che sia stato un partigiano ma in realtà non è così perché mio nonno dovette arruolarsi nelle truppe naziste e combattere con loro al fronte russo. Ebbe molta fortuna perché finì in Francia a causa di una lieve ferita ma non riuscì mai ad accettare e ammettere ciò che successe realmente. È triste da pensare, non gliene faccio una colpa perché la propaganda era molto forte e questo era normale. Vorrei perdonarlo per questo e vorrei anche che lo potessero perdonare tutti quegli uomini e soprattutto bambini che pensando di rivedere la propria mamma andarono incontro ad un’altra donna: la morte. Questa storia potrà sembrare banale ma è quello che successe a milioni e milioni di persone, è dalla “banalità” di un uomo pazzo e violento che è nata questa strage. Essendo di origini tedesche, ho tentato anche di immedesimarmi nell’altra parte ma poco cambia perché al contrario di quello che pensava Hitler, una strage è una strage e milioni di persone non possono essere dimenticare e sparire nel nulla.
È il peso di una pietra, un macigno che porta con sé la mia famiglia e in segno di rispetto e richiesta di perdono vorrei poter posare quella pietra nel luogo in cui bambini come quella di cui ho parlato hanno perso tutto.
Francesca Malacario, “La Shoah intorno al mondo”
Caterina Marconi, “Guardiamo in faccia anche la morte”
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Banalizzare con le parole gli avvenimenti che macchiano la storia dal 1933 al 1945 è talmente facile da risultare imbarazzante; ho provato a scrivere, ho cominciato, ho cancellato e ho riscritto più e più volte – mai troppe.
Il timore è che tutto venga ridicolizzato, ignorato, incompreso, sottovalutato, mistificato. Siamo uomini, e come tali siamo soggetti a commettere errori, ma davanti ad un orrore profondo come la distruzione di intere culture, orientamenti, razze, famiglie, non esistono termini sufficientemente esaustivi. Le parole sono forti, ma ho scoperto che la Shoah lo è di più, anche a distanza di anni. L’indifferenza, la semplicità con cui possiamo negare un evento simile, lo sono di più.
Ho visto l’immagine di una vecchia. Le orbite erano vuote e nere e la bocca rugosa era spalancata sul nulla, a chiedere, forse, un perché a cui nessuno avrà mai il coraggio, né la capacità, probabilmente, di dare una risposta. C’era questo volto calpestato dalla bestialità umana che era rivolto verso il cielo e io ho voltato il viso. Non ho avuto il coraggio di guardare e ho distolto la mia attenzione. È vero: non ero ancora nata, le mie mani non sono direttamente sporche di sangue, ma a distanza di anni, anch’io sento di aver sputato sul dolore di milioni di persone. È per questo che giovani o vecchi, uomini o donne, non dobbiamo permetterci di non guardare. Non dobbiamo permetterci di ignorare.
Non deve esistere persona degna di questo nome che pensi che tutti quei morti non riguardino tutti quanti, non bisogna pensare che “tanto non sono stato io”, “tanto non ero ancora nato”.
Non è abbastanza scriverne, né è abbastanza parlarne. L’unica cosa considerabile appena sufficiente che possiamo fare è quella di giurare davanti al dio in cui crediamo che noi non dimentichiamo. Non dimentichiamo i nostri morti. Non le donne, non gli uomini, non i bambini, i vecchi, gli storpi, gli omosessuali, i rom, i forti, i deboli, i buoni e i cattivi, i sopravvissuti, i terrorizzati, chi continua ad avere fede e chi, di credere, ora non ne ha più voglia.
Io dico che per vivere dobbiamo riuscire a guardare in faccia anche la morte, altrimenti sopravviviamo e basta.
“Qui sosta in silenzio, ma quando ti allontani parla.”
Epitaffio sulla lapide posta su un giardino di rose a commemorazione di venti bambini ebrei trucidati a Neuengamme dai Nazisti
Nel campo di nessuno
Nel campo c’era la bambina. La realtà era che era da sola e lei voleva vedere le farfalle. Ma con la neve ed il freddo che mastica la carne, le farfalle non ci sono. Voleva vedere i fiori, ma non c’erano neanche quelli. C’era solo il bianco e vedeva il suo amico Yoel.
«Yoel, dov’è la mamma?»
Ma Yoel rimase in silenzio: non lo sapeva.
Nessuno lo sapeva. Un giorno la bambina si era svegliata e la mamma non c’era più. Le donne l’avevano guardata in un modo che lei non aveva compreso – pietà.
La mamma non era tornata. Al suo posto era arrivato per lei Yoel.
«Yoel, ma tu non hai freddo? Qui c’è sempre freddo… forse dovrebbero accendere le stufe.» Yoel si strinse nelle spalle: non aveva freddo. Sentiva il calore del camino che la bambina aveva a casa.
La bambina sospirò e rabbrividì a causa di una folata di vento violenta che le spazzò la nuca scoperta dai capelli che le erano stati portati via. Subito dopo deglutì e le labbra bianche e crepate di freddo si strinsero tra loro in una linea dritta.
«Sai, Yoel… dicono che quando ci mandano a fare la doccia dopo non torniamo. Molti hanno paura, ma io non capisco proprio: magari ci rimandano a casa, no? Magari la mamma è andata lì e non mi è potuta tornare a prendere!»
Ragionò e Yoel annuì e le sorrise e la bambina… be’, la bambina sorrise di rimando, perché la sua mamma le diceva di non smettere mai di farlo. Che lì, più che altrove, la forza e la bellezza si misuravano in sorrisi. E da quando la mamma non c’era più, la bambina, quando alla sera si coricava, si ritrovava i muscoli delle guance che dolevano a causa dello sforzo prolungato a cui li aveva sottoposti. E sorrideva anche lì, nel campo di nessuno.
La voce di un tedesco le arrivò dalle spalle e sussultò, un ordine abbaiato, in quella lingua che proprio non le piaceva. Era cattiva.
Venne sgarbatamente afferrata per un braccio e venne sospinta verso uno dei viali principali, dove una lunga colonna grigia di anime già morte si trovava.
Era arrivata la fine.
La bambina si volse indietro e sorrise ancora, nonostante tutto.
Salutò Yoel con la mano: gli aveva già detto di sorridere sempre.
Ma Yoel non sorrideva più.
Il campo di nessuno restò vuoto, Yoel sparito.
Anche l’ultima difesa di un’anima sfibrata era caduta.
Rossella Novelli, “L’inferno delle donne”
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“L’inferno delle donne” fu il soprannome dato al campo di concentramento esclusivamente femminile a Ravensbrük (90 km a nord di Berlino) nato nel maggio del 1939, dove furono incarcerate 100.000 donne. Un ulteriore campo femminile fu costruito anche ad Auschwitz (conosciuto come Auschwitz II) nel 1942.
Non solo le donne Ebree furono massacrate, ma anche le Rom e le Ortodosse. In particolare, ad Auschwitz venivano attuate due operazioni chiamate “T-4” ed “Eutanasia” in cui le donne Rom e disabili vennero fucilate in massa.
La selezione era semplice per i soldati delle SS: le anziane, le donne incinte o con bambini venivano immediatamente spedite nelle camere a gas perché venivano catalogate come “inabili al lavoro”, ovvero non adatte ai lavori forzati che erano costrette a fare ogni giorno.
Le ragazze, la cui gravidanza non era ben visibile, cercarono il modo di nascondere il loro stato interessante in modo da non essere così obbligate a dover abortire forzatamente – anche se la gravidanza era una conseguenza delle prestazioni sessuali in cambio di cibo. Se i cosiddetti “Esperti di razze” giudicavano che la prole non potesse essere “germanizzata”, esse erano costrette ad abortire oppure a partorire in un ospedale improvvisato le cui condizioni igieniche erano pessime, causando così la morte del bambino.
Coloro che erano state catalogate come abili al lavoro, avevano poche scelte: potevano essere destinate ai reparti di sartoria, nelle cucine o nelle lavanderie, altre invece erano vittime (specialmente le Ebree e le Rom) di esperimenti atroci sulla sterilizzazione e altri tipi di ricerca.
I primi esperimenti riguardarono la cura delle infezioni per i soldati fronte: il loro delle donne era quello di essere ferite appositamente, in seguito le venivano introdotti pezzi di legno o di vetro per arrivare alla cancrena e, infine, si testava l’efficacia dei medicinali.
Altre subirono amputazioni o lo spezzamento degli arti per ricerche della possibilità di trapianti di ossa e nervi.
Un esperimento celebre in questi campi di concentramento femminili era quello della sterilizzazione tramite la chirurgia ed i raggi x: il professore Clauberg, il quale lavorava nel campo di Auschwitz, inventò un nuovo metodo che consisteva nel spruzzare un liquido sterilizzante sul collo dell’utero. Questo metodo aveva conseguenza dolorose poiché provocava emorragie ai genitali.
Ida Desandré, deportata nel campo di Ravensbrük, testimoniò per quest’ultimo esperimento e le sue conseguenze:
“Nel campo di Ravensbrück eravamo tutte donne: giovani, vecchie… Insomma, c’era un po’ di tutto, ma solo donne. In questo campo sono stati fatti anche degli esperimenti sulle prigioniere. Esperimenti anche molto terribili. Quello che è stato fatto a me, come a tante altre – c’è qualcuno che lo ricorda con più precisione, c’è qualcun altro che lo ricorda un po’ meno – comunque ci veniva tolto il ciclo mestruale, e allora… A chi mettevano qualcosa nel mangiare… A qualcuna qualcosa nel mangiare… Invece a tante altre veniva… Ti mettevano su un tavolo e ti veniva iniettato, direttamente… Un liquido molto irritante: questo liquido ci ha tolto le mestruazioni.
Da quel momento sino a quando non sono tornata a casa, anzi un periodo di tempo dopo che sono rientrata a casa, non ho più avuto le mestruazioni. Togliendoci, appunto, il ciclo mestruale – questo era un problema molto grave per la donna – ma i nazisti sapevano benissimo le conseguenze di tutto questo perché loro dicevano che noi eravamo come degli schiavi, e che gli schiavi si riproducono troppo in fretta, come i topi, perciò certamente anche in questo senso cercavano in un modo di eliminare il più possibile le persone. Anche nei nostri riguardi, che non avremmo potuto magari più procreare, più avere figli.
Questo penso che sia stato lo scopo di questo esperimento, e anche soprattutto, per vedere l’effetto sulla donna, togliendo il ciclo mestruale… L’effetto che poteva fare. L’effetto è stato quello che poi i nostri corpi si sono riempiti anche di grossi foruncoli: foruncoli sempre pieni di pus… E poi anche i pidocchi… I pidocchi si accompagnavano benissimo coi foruncoli.
Oltre agli esperimenti, poi, le selezioni… Ci sceglievano per portarci fuori del campo di Ravensbrück. Perché il campo aveva i campi satelliti, diciamo i campi di lavoro, sono intervenuti degli industriali tedeschi e ci hanno scelte.”
Lo scopo di questo esperimento era quello di sterilizzare le donne indesiderabili per il nuovo ordine mondiale ideato dai nazisti.
Eppure, in questi campi femminili ci fu persino uno spiraglio di luce e di speranza: molte prigioniere fondarono gruppi di mutua assistenza che permetteva la sopravvivenza grazie allo scambio di informazioni, cibo e vestiario. Una particolarità di questi gruppi era quella che la maggior parte dei membri provenivano dalla stessa città (o provincia), avevano legami familiari oppure avevano lo stesso livello di istruzione.
Un personaggio femminile da sottolineare fu quello di Haika Grosman, leader di un’organizzazione della Resistenza nei campi. Sempre ad Auschwitz – nell’ottobre del 1944 – , accadde un episodio che mise in risalto la solidarietà e la forza delle donne: cinque ragazze (Ella Gartner, Regina Safir, Estera Wajsblum, Roza Robota e Fejga Segal) assegnate al reparto di Vistola per la lavorazione del metallo, fornirono la polvere da sparo ai membri di un’Unità Speciale Ebraica, i quali fecero saltare in aria una camera a gas uccidendo delle guardie delle SS.
Numerose donne, tra cui le più famose Hannah Szenes e Gisi Fleischmann, furono attive nelle operazioni per salvare gli Ebrei: Hannah fu paracadutata in Ungheria nel 1944 mentre Gisi – essendo capo del Gruppo d’Azione – cercò di fermare le deportazioni dalla Slovacchia.
Altre, invece, presero parte in movimenti socialisti, comunisti e sionisti. In Polonia, alcune lavorarono come corrieri per portare informazioni nei ghetti, molte altre scapparono nei boschi della Polonia orientale o dell’Unione Sovietica per aggregarsi ad unità partigiane.
“Considerate se questa è una donna Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno” –
Primo Levi, “Se questo è un uomo”.
Link utilizzati per citare testimonianze ed informazioni:
– Enciclopedia dell’olocausto
– Donne viola – inferno delle donne
Elisa Paperini, “Perché, in fondo, potresti essere mio fratello”
TESTO (Clicca per mostrare/nascondere )
Il perdono è “un gesto umanitario con cui, vincendo il rancore, si rinuncia a ogni forma di rivalsa di punizione o di vendetta nei confronti di un offensore”1; semplice definirlo a parole e oggettivamente.
I sentimenti umani, però, sono spesso difficili da “dominare”: possiamo dedurlo anche dalle parole vincere e rinuncia, citate inizialmente, che implicano l’esistenza di un conflitto (interiore) al quale, secondo il significato di perdono, dobbiamo cercare di sopravvivere.
A questo punto, è più opportuno combattere e riuscire a perdonare o è meglio lasciar agire le nostre emozioni e il senso di giustizia che fin da bambini i nostri genitori ci trasmettono attraverso il concetto di giusto- sbagliato e buono-cattivo?
Combattere è la scelta migliore che si possa compiere.
Anche gli animali, soprattutto i cani, riescono a perdonare l’uomo dopo essere stati maltrattati e abbandonati: amano incondizionatamente (l’agàpe). Alcuni studiosi sostengono che siano capaci di non provare rancore perché hanno una memoria a breve termine; altri negano questa teoria e affermano che “hanno un gran cuore”. In ogni caso rappresentano un esempio positivo per l’uomo.
Perdonare è la scelta migliore perché ci conduce alla salvezza, alla pace interiore. Non è semplice da capire, forse queste parole ci possono aiutare: buttò la sua divisa per terra e si vestì in borghese e a quel punto buttò la sua pistola, praticamente ai miei piedi. In tutto quel tempo io mi ero nutrita di odio e di vendetta. Dal momento in cui avevo lasciato la mano di mio papà e dal momento in cui avevo capito dov’ero e sentito che non l’avrei mai più rivisto, mi ero nutrita di odio e di vendetta. Quel tremendo ufficiale SS lasciava la sua pistola ai miei piedi, mi sembrò un segnale. “Ecco – pensai per un attimo – raccolgo la pistola e lo uccido!” Mi sembrava assolutamente il giusto finale di quello che avevo vissuto fino a quel momento. Fu un attimo, un attimo importantissimo nella mia vita, devo dire forse il momento più importante in assoluto, moralmente, nella mia vita perché io capii che mai avrei potuto uccidere nessuno, per nessun motivo. Avevo scelto la vita e nella vita bisogna decidere: o l’odio uguale a morte o la vita. Io avevo scelto la vita e in quel momento dovevo scegliere, o l’odio o la vita. Ho scelto la vita! Da quel momento sono stata libera!2
La ripetizione della frase “mi ero nutrita di odio e di vendetta” sottolinea la rabbia presente nell’animo della persona che parla; nonostante questo, il finale del discorso è un colpo di scena: Liliana Segre perdona il carnefice e, come dice lei stessa in un’altra parte della testimonianza, non si abbassa al suo livello. Non sente più il bisogno di punirlo o avere giustizia: è LIBERA.
Come lei, altre persone, anche con riferimenti a eventi storici diversi, hanno intrapreso la strada “meno battuta”: Nelson Mandela, ad esempio che nel film Invictus afferma che “il perdono libera l’anima e cancella la paura”; altresi al giorno d’oggi ragazze seviziate da ex fidanzati (e non solo) dichiarano di aver perdonato il molestatore.
D’altra parte però è necessario un sistema di giustizia. Anche la fisica approva: ad ogni azione corrisponde una reazione! Se non esistessero le prigioni o le condanne ognuno si sentirebbe libero di compiere qualsiasi azione, anche uccidere. Sentiamo spesso in giro la frase “se potessi lo ucciderei”… Solo parole e forse, in fondo, non avremmo nemmeno il coraggio; ma non sono da sottovalutare. Soprattutto negli ultimi tempi i valori morali non sono più gli stessi e frequentemente “controlliamo” la nostra condotta solo per paura della legge e non per amore del prossimo.
Proprio da quest’ultima riflessione possiamo avanzare una seconda ipotesi: perdonare non è sempre giusto. Dobbiamo lasciar agire i nostri istinti e seguire le emozioni legate ad un determinato evento. Abbiamo varie argomentazioni riguardo la suddetta teoria, prima fra tutte è la legge del taglione che 4 possiamo addirittura leggere nella Bibbia . Questione non proprio moderna, anzi, vari popoli l’hanno adottata per evitare conflitti tra gli individui. “Occhio per occhio e dente per dente” è una valida regola per porre fine al sentimento di rabbia che abbiamo dentro di noi. Semplice, no? Prima ci vendichiamo e sfoghiamo i nostri istinti e poi, se vogliamo possiamo decidere di perdonare.
Ma stiamo attenti perché, come diceva Gandhi: “occhio per occhio e il mondo diventa cieco!” Non possiamo perdonare dopo la vendetta perché, se così fosse, creeremo un pretesto a favore del “nemico” attraverso il quale anche lui potrebbe pensare di redimersi dopo essersi a sua volta vendicato. Si forma un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire solamente se un altro individuo, per restare in tema biblico, segue il “motto”: porgi l’altra guancia.
Porgere l’altra guancia, però, non è semplice. Tornando alla seconda guerra mondiale è comprensibile leggere frasi di persone che hanno perso la fiducia in Dio (tra i più conosciuti Primo Levi: “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo”) e non sono state capaci di perdonare ne Lui né i loro carnefici. Non sono riusciti a trovare la pace e, forse, non si sono mai sentiti liberi anche con la morte. A questo proposito possiamo citare il verso del canto La canzone del bambino nel vento di Francesco Guccini: “è strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento” che possiamo interpretare come una sorta di critica alla nostra società che non ha ancora smesso di provare rancore e non riesce a perdonare.
In conclusione possiamo ricordare una frase del Dhammapada: “chi vince genera odio, chi è vinto soffre. Con serenità e gioia di si vive se si superano vittoria e sconfitta”. Evitare di cercare sempre un colpevole, provare a perdonare e non approfittarsi dell’altro sono azione che compiute anche nella vita quotidiana ci aiuterebbero a vivere, come dice il verso, con serenità e gioia. Perdonare non solo quando si tratta di offese più leggere; ma anche, ad esempio, nel caso dei Lager, dei Gulag etc. significa “dare un senso a qualcosa di inumano” e, come ci ricorda Liliana Segre trovare la libertà. Perché siamo tutti uguali e non occorre fare la guerra.
Bisogna anche pensare che se Liliana avesse ucciso l’ufficiale avrebbe dovuto vivere il resto della propria con il pentimento di aver “tolto” la vita ad un essere umano. Forse è anche per questo che il perdono porta alla libertà. Come ultime frasi propongo una citazione dal libro “Niente di nuovo sul fronte occidentale” dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque: Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto, e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire… Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello.
Elisa Paperini, “Il suono del silenzio”
“Testimonianze di Angiolino, Oretto, Egisto”
Testimonianze di Angiolino, Oretto, Egisto
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