SUI PASSI DI LILLI

SUI PASSI DI LILLI

“put yourself in someone else’s shoes”

Questo Concorso ci chiedeva di riflettere sulle parole pronunciate da Liliana Segre – testimone della Shoah sopravvissuta ad Auschwitz – nel giorno del suo insediamento al Senato della Repubblica come Senatrice a vita. Le abbiamo lette con attenzione, ma non ci sembrava che bastasse semplicemente leggerle: occorreva viverle. “Viverle” ha voluto dire tentare una sorta di esperimento del cuore, quello per cui si ricalibrano le corde dell’emotività sulla lunghezza d’onda di qualcun altro cercando di sentire il suo stesso sentire. Si tratta di mettersi dalla parte dell’altro, ma senza perdere se stessi; anzi, riconoscendo nell’altro qualcosa di estraneo, di sconosciuto, qualcosa che sfida ogni sicurezza identitaria mantenendola ma facendone sgretolare le presunzioni di solida unicità. Non sappiamo dire con certezza se l’esperimento sia riuscito; è certo, tuttavia, che questo esercizio ci ha davvero cambiati. Innanzi tutto scardinando la taratura con cui eravamo soliti misurare ciò che è umano, perché abbiamo scoperto livelli inusitati di dolore, come di violenza; il dolore delle vittime, la violenza dei carnefici. Un dolore e una violenza che restano tragicamente unici e incomparabili nel dramma vissuto da Liliana Segre e da quelli “che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento”. Un dolore e una violenza che, tuttavia, seppur seguendo dinamiche differenti, ha attraversato la nostra Storia e che abbiamo cercato di trarre dall’oblio attraverso le storie dei bambini che quel dolore hanno provato sulla propria pelle e quella violenza l’hanno subita. Così, ognuno di noi “ha calzato le scarpe” dell’altro che ha evocato, o riscoprendone la storia vera o costruendola come verosimile sulla base delle fonti storiche a disposizione. Ne è nato questo strano album, che, nelle pagine di sinistra si occupa di ripercorrere TRACCE E TRACCIATI, vale a dire di documentare La Storia e di strutturare Il contesto (vero o verosimile) entro cui collocare la vicenda del bambino o della bambina; mentre nelle pagine di destra dà loro la parola, attraverso una sorta di lettere che tracciano ORME sul terreno, imprimono segni di parole viventi che ci restituiscono una storia di vita spezzata, una testimonianza di umanità. Alla voce dei bambini abbiamo voluto accompagnare quella di Liliana Segre, riproducendo a piè’ di pagina le parti del suo discorso di insediamento. Non abbiamo inteso seguire un preciso ordine cronologico, proprio perché i piccoli protagonisti del nostro viaggio della memoria non appartengono più a un tempo o a uno spazio precisi, ma all’eterno coro muto dei perseguitati e degli oppressi, che è ovunque intorno a noi, se solo ci assumiamo la responsabilità di contrastare quell’indifferenza che in ogni tempo ci preclude l’opportunità di essere degni di appartenere al nostro genere. Per rimarcare la particolarità dell’album, abbiamo, poi, deciso di realizzarlo completamente nella struttura, partendo dai materiali grezzi – legno, gesso, smalti, creta, fil di ferro, chiodi, cardini, resine – e dando vita a una sorta di COPERTINA BASSORILIEVO che evoca la tragedia di “Lilli” – come ci siamo presi la libertà di chiamarla noi – e di tutti i bambini rinchiusi nei Lager nazisti: un paio di scarpette, logore e sdrucite come le tante esposte nell’area museale di Auschwitz, rimarca con la tonalità del rosso acceso il dramma del sangue versato e delle vite perdute, che si sovrappone nel suo pathos tragico ai grigi morbidi ed evanescenti oppure aspri e marcati dello sfondo, in uno spazio chiuso definito dalla doppia stella di David in filo spinato. Gli alunni della IV C Scientifico del Liceo Statale “E. Fermi” di Cecina

 

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AilanHoniahakaGerhardShauryaPaolo
ZlataRhumaaNtareMicolQasim
SaamiyaSarahChunSergioAleksandr
DimitrieTepiltsinYankelGeorgiaNengi

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Ailan

La Storia: Il 2015 rappresenta per l’Europa l’annata durante la quale il numero di profughi sbarcati sulle coste dei Paesi dell’UEè arrivato a cifre impensabili. La maggior parte era costituita da siriani che scappavano dalla guerra civile nel loro Paese. Tutto aveva avuto inizio nel marzo 2011, quando la popolazione siriana era scesa in piazza contro il regime del presidente Bashar al-Assad, succeduto al padre e che governa la Siria ininterrottamente dal 2000 (la famiglia Al-Assad, complessivamente, governa a Damasco dal 1971). Il regime cercò di reprimere con la forza le manifestazioni, causando centinaia di morti, ma le proteste si diffusero. Dopo le repressioni una parte dei dissidenti politici è passata alla lotta armata e anche una parte dei soldati siriani hanno disertato per unirsi alla ribellione. Negli ultimi mesi del 2011 alcuni ufficiali disertori hanno proclamato la nascita dell’Esercito Siriano Libero (cioè l’FSA, Free Syrian Army). Da allora si è passati ad una vera e propria guerra civile, che dal 2012 arriva fino ad oggi, dato che è ancora in corso. Negli anni, oltre un milione di siriani se ne sono andati, quasi tutti fuggiti attraversando il mare. Questi profughi si sono spostati verso l’Unione europea per chiedere asilo, viaggiando attraverso il mar mediterraneo oppure attraverso la Turchia e l’Europa sudorientale. Tuttavia queste traversate sono state causa di frequenti naufragi, portando alla morte moltissime persone, bambini compresi.

Il contesto: Questa è la storia vera di Aylan Kurdi, il bambino siriano di 3 anni annegato durante il naufragio dell’imbarcazione che doveva portare lui e la sua famiglia, originaria di Kobane, a Kos, l’isola greca dove migliaia di profughi dalla Siria sbarcavano con la speranza di raggiungere il Nord Europa. Aylan si era imbarcato il 2 settembre del 2015 con la sua famiglia a bordo di un piccolo gommone. Non è chiaro cosa sia successo all’imbarcazione: 12 persone morirono annegate mentre si trovavano a pochi passi dalla costa turca, distante solo mezz’ora da Bodrum. Il corpo del piccolo è stato ritrovato sulla battigia la mattina seguente, lambito dal mare, finché un poliziotto turco non lo ha raccolto con delicatezza e lo ha sottratto ai fotografi che, comunque, hanno filmato la scena. Nel naufragio sono morti altri tre bambini. La città natale della famiglia di Aylan, di origine curde, era Kobane: a causa dei continui attacchi dell’ISIS, i genitori di Aylan avevano deciso di fuggire. Il progetto era quello di raggiungere un posto sicuro dopo che il Canada aveva rifiutato loro la domanda di asilo per via della loro origine etnica. Anche la madre Rihan, 35 anni, è stata risucchiata dal mare. È sopravvissuto solo il padre, che rimarrà solo con le foto e con i ricordi dei momenti passati insieme alla famiglia perduta.

Mi chiamo Aylan ed ero un bambino. Sono nato il 3 Giugno 2012 a Kobane, in Siria. Nella Siria dalla storia millenaria, contesa tra ebrei e fenici, accadi e ittiti; nella Siria della regina Zenobia di Palmira e della conversione di Saulo di Tarso. Tutto questo nel passato. In questo tempo, il mio tempo, la Siria è solo un campo di battaglia, una distesa arida, riarsa, desertica dove si scontrano i titani del mondo. Sulla nostra pelle. Mio padre ha già tentato di farci fuggire; ci siamo trasferiti più volte in altre città siriane e abbiamo provato anche a spostarci in Turchia. Senza esito: pochi mesi fa, infatti, siamo tornati nella nostra città, a Kobane. Oggi, 2 settembre 2015, i miei genitori hanno deciso che vogliono dare a me e a mio fratello Galib un futuro migliore. Parlano di un luogo lontano dove al posto delle vaste estensioni di sabbia troveremo foreste sterminate; un luogo al di là del mare immenso che si chiama oceano; un luogo distante dalla miseria e dalla fame. Però mi chiedo come si possa affrontare un viaggio così lungo sul piccolo gommone nel quale ci ritroviamo stipati, attaccati gli uni agli altri che quasi non si respira. Mio padre mi rassicura: sarà un viaggio breve, per arrivare all’isola da cui poi affronteremo quello vero e proprio. Un viaggio breve che per me non è mai finito. Il mare si sta agitando sempre di più, la notte mi appare più nera del solito; sento l’acqua che si insinua tra i piedi, mi avvolge le caviglie, si inerpica su per le mie piccole gambe. Mamma mi ha fatto indossare la maglietta rossa che, dice lei, porta fortuna; invece a un certo punto un’onda alta e terribile quella speranza annega per sempre, risucchiandomi nei flutti di un mare in tempesta che solo al mattino mi restituisce pietoso alla terra. Poi sono diventato d’un tratto famoso, anche se io volevo essere solo un bambino, un bambino che sarebbe cresciuto, un bambino con un’intera vita da costruire. Il mio corpo privo di quella vita a cui aspiravo è stato fotografato più volte e le immagini hanno fatto, loro sì, il giro del mondo. Cari signori che mi guardate e vi commuovete, non avete pensato un giorno che fosse impossibile che un’intera popolazione, all’epoca del nazifascismo, non sapesse ciò che accadeva nel cuore dell’Europa, dentro i campi di sterminio? Non vi siete, poi, risposti che tutti sapevano: sapevano in Germania, in Polonia, e anche in Italia. Eppure è accaduto lo stesso. Cari signori, è lo stesso anche oggi: nessuno può dire di non sapere ciò che da decenni accade nel Mediterraneo, o lungo i confini, lungo le frontiere mobili che congiungono il Sud del mondo al Nord, con le sue prime porte che si chiamano Italia, Grecia, Balcani, Ungheria. Vedete, signori, il mio corpo non è neanche nero come il carbone, non è rivestito di stracci; il mio corpo potrebbe essere il vostro piccolo o quello dei vostri figli. Non guardate in me lo straniero, né il clandestino che minaccerà la vostra solida dimora. E’ vero, io per voi sono una minaccia, ma più subdola, più insinuante. Io vi rammento che la mia storia è anche la vostra o potrebbe diventarlo; io vi richiamo alla responsabilità che vi riconosce unici colpevoli di quella morte, la vostra stessa morte. Come potete lasciar morire decine di migliaia di ragazzi e ragazze, bambini e madri, ogni giorno, sotto i vostri occhi che sanno? Come potete lasciare che tutto questo accada, ogni giorno leggendo i bollettini degli arrivi e dei caduti? La maggior parte di quelli come me, lo sapete, scappano da carestie, persecuzioni e guerre che proprio l’occidente ha generato e alimentato. Prima che anche l’immagine del mio corpo esanime si dissolva nella vostra labile memoria, vi vorrei chiedere di stamparla, di esporla sulle vostre scrivanie, nei vostri uffici, sui tavoli dei vostri salotti perché finalmente possiate non dimenticare che siamo tutti migranti, frutto di una catena sterminata di spostamenti, di diaspore, di esodi. Una catena che, pensateci, è la nostra vera forza, è la fonte della nostra bellezza, gli strati che costituiscono e sedimentano la nostra anima. Guardate la mia foto: vi dice che il futuro è un diritto di tutti, anche di chi scappa; vi dice che l’indifferenza genera mostri che è inutile riconoscere quando è ormai troppo tardi. Questo solo vorrei raccomandarvi: non diventate voi i nuovi mostri!

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Honiahaka

 La Storia: Il 28 settembre 1864 il capo cheyenne Pentola nera, unito al capo arapaho Antilope Bianca erano scesi a compromessi con i coloni appartenenti al campo di Fort Lyon. Secondo questa sorta di patto, le due tribù nei pressi del forte non avrebbero dovuto temere le repressioni dei coloni, essendo due gruppi pacifici. Nel novembre dello stesso anno, le due tribù migrarono nei pressi di un’ansa del fiume Sand Creek, a poca distanza da Fort Lyon. Il generale Chivington, partito la sera del 28 novembre dal forte con una schiera costituita da più di 700 uomini, marciò, invece, sull’accampamento con una sola intenzione in mente, quella di commettere una strage. La mattina del 29 novembre la maggior parte della popolazione dei nativi si trovava nel villaggio; gli uomini adulti erano lontano, ad est, a caccia delle mandrie di bisonti e circa i due terzi delle 600 persone presenti nel campo erano donne o bambini. Dalle possibili stime, i guerrieri nel campo potevano essere circa 35, più qualche anziano. I nativi furono svegliati dal rumore degli zoccoli di cavallo che scalpitavano, uscirono dalle tende e il generale diede l’ordine di fare fuoco. Le vittime saranno 133 in totale: gli uomini di Chivington massacrarono la popolazione senza scrupolo e il loro generale sosterrà vigliaccamente di aver vinto conto un esercito indiano di 400 guerrieri. In seguito la vicenda fu studiata e approfondita dall’Esercito statunitense e dal Congresso, i quali scoprirono la crudele verità. Di fatto nessuno che aveva operato il massacro fu punito. La strage del Sand Creek darà il via a molte rappresaglie da parte dei nativi in tutto lo stato del Colorado orientale, che tuttavia terminarono con la sconfitta dei rivoltosi.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Honiahaka, nella quale si raccontano e si provano le sensazioni del bambino prima di morire durante il massacro del Sand Creek. Honiahaka – “piccolo lupo” – è un nativo cheyenne che vive vicino al Sand Creek con la sua tribù. Durante la mattina del 29 novembre sarà una delle numerose vittime innocenti dell’esercito del generale Chivington. Honiahaka vive con la sua famiglia da poco più di un mese nella sua nuova tenda vicino alla sponda del fiume. Un mese prima si erano trasferiti insieme alla tribù Araphao, dopo che il capo Pentola Nera aveva ottentuto un patto di pace con i coloni. Prima della notte del 29 novembre il padre di Honiahaka era partito insieme a tutti gli uomini della tribù per la solita battuta di caccia al bisonte e il piccolo era rimasto con la mamma e i nonni al villaggio. Da poco era sorto il sole quando tutta la famiglia venne svegliata di soprassalto da urla e pianti, rumori di spari e zoccoli scalpitanti. Il villaggio era stato attaccato. Tutti erano usciti dalla tenda, terrorrizzati dal panico, cercando di fuggire. In un solo colpo Honiahaka vede morire i suoi due nonni, rimasti abbracciati per la paura della fine imminente. La madre, mentre tentava di raggiungere il tepee per portare via il figlio, d’un tratto viene raggiunta da un colono a cavallo che la uccide senza pietà con un colpo di pistola. Nel frattempo Honiahaka inizia a correre e prova a fuggire rifugiandosi tra le sponde del fiume, ormai rosso del sangue della sua gente. Pochi minuti dopo il bambino nota un uomo dalla giacca turchina venirlo a cercare; prova a nascondersi tra le foglie. Ma è troppo tardi.

Mi chiamo Honiahaka ed ero un bambino. Sì, ero un bambino felice e libero, cresciuto nelle sconfinate praterie americane del Colorado che erano la mia casa grande, dentro la quale si muoveva quella piccola, il tepee che ci proteggeva dal freddo e che era il guscio sicuro degli affetti. Giocavo ogni giorno con le farfalle, correvo negli spazi aperti sicuro della protezione di Maheo, il Grande Spirito che infonde energia vitale ad ogni cosa, e della presenza rassicuratrice dei maiyun. Il fiume e i lampi erano i miei fratelli e gli animali erano i miei amici; sapevo cantare come cantano le montagne e dipingevo il vento dei colori del soffio e dell’aria. Pensavo a mio padre lungo la strada del bisonte e quando i cacciatori come lui tornavano al campo ballavo intorno al grande fuoco e cantavo con la mia tribù ‘ly-o-lay-ale-loye’ per consacrare le sacre frecce. Tutte le sere guardavo il cielo e mi immaginavo da grande, mentre cavalcavo attraverso gli orizzonti aperti delle praterie. Immaginavo di raggiungere una felicità piena nella terra dei miei avi, quella terra che qualcun altro ha poi rivendicato, e preteso, e conquistato. Non ne ero consapevole: il capo Pentola Nera era riuscito a stipulare un patto di pace con i bianchi della vicina tribù che veniva chiamata Fort Lyon. Erano strani questi nuovi amici pallidi, avevano paura che la nostra gente dichiarasse loro guerra e insorgesse, ma noi, come la tribù Arapaho, eravamo del tutto pacifici. Fu così che, d’accordo con lo sciamano in giacca blu di quella gente, verso ottobre ci trasferimmo nei pressi del fiume Sand Creek. Quel posto mi piaceva molto: la nostra tenda si trovava vicino alla sponda e il gorgoglio dell’acqua accarezzava di musica dolce le mie sere riempite delle storie antiche raccontate dal padre di mio padre. Verso la fine di novembre del tempo dei visi pallidi, i padri e tutti i maschi grandi tornarono a seguire le tracce del bisonte. Mia madre quella volta era particolarmente triste e dopo aver coperto i corpi dalle tante lune dei nonni, mi portò a dormire con lei perché si sentiva un po’ sola, anche se cercava di nasconderlo. Capisco sempre quando ha qualcosa che non va! Mi cullò come se fossi tornato piccolo piccolo e mi addormentai nella ninnananna dei suoi sospiri presaghi, sotto una stella morta piccola. Poi fu una musica sempre più forte. Provai per tre volte a chiudere gli occhi, ma non ero in un sogno popolato dagli spiriti inquieti. Gli amici di Fort Lyon, con le loro giacche turchine, dipingevano la terra del rosso dei corpi rotti, abbandonati dal mahta’sooma. Così vidi lo spirito di mio nonno librarsi verso la Via Lattea per raggiungere il campo dei morti Seana e, insieme al suo, quello degli altri vecchi, delle donne, dei bambini. Piansi le lacrime più grosse, ma di lì a poco il dolore che squarcia il cuore degli uomini avrebbe annegato persino le lacrime: mia madre giaceva tra la polvere insanguinata e i suoi dolci occhi non mi avrebbero più guardato con amore, le sue morbide mani non avrebbero più stretto le mie. Volevo abbracciarla, accarezzarla, avvolgerla io per questa volta nel mio boccio di dolcezza. Volare via insieme. Ma dovevo nascondermi. Il fiume doveva essere la mia via di fuga e divenne la mia dimora eterna. L’uomo dalla giacca turchina mi raggiunse e mi prese; mi guardò dritto negli occhi e io mi accorsi che i suoi erano blu come l’acqua del Sand Creek. Poi sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso, e sentii i pesci cantare, e vidi un dollaro d’argento posato sul fondo dell’acqua cremisi che mi accolse nel suo abbraccio gelido. Sento freddo e ho paura, mi sento solo. Ho provato tante volte a tentare di spiegare il mio destino, ma senza risultato. So solo che questa era la mia terra ed era stata la terra di tutti quelli come me venuti prima di me per tutte le lune trascorse di cui si conservi memoria. E so che a un certo punto non lo è più stata perché noi siamo diventati i nemici di qualcuno, i selvaggi di qualcun altro. Anche se a me, vicino al Sand Creek e poi dentro le sue torbide acque, i nemici veri e i selvaggi veri apparvero col volto degli uomini pallidi che avanzavano da là dove sorge il sole.

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Gerhard

La Storia: Forse non tutti sanno che il genocidio nazista cominciò proprio dai disabili. I portatori di handicap, minori e adulti, furono le prime cavie designate di tutte le tecniche di annientamento, sterilizzazione e eutanasia sviluppate poi nella Shoah. Il processo di annientamento iniziò il 14 Luglio 1933 quando, a pochi mesi dalla presa di potere, Hitler emanò una legge che stabiliva la sterilizzazione forzata di persone affette da una serie di malattie ereditarie – o supposte tali – tra le quali schizofrenia, epilessia, cecità, sordità, corea di Huntington e ritardo mentale. Poi il 1° settembre 1939 egli emanò un ordine scritto il cui testo recitava: “Il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcuni medici da loro nominati, autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia”. Con questo ordine la macchina per l’eliminazione fisica dei disabili fisici e mentali trovava la sua copertura giuridica. Subito dopo l’emanazione dell’ordine di Hitler si iniziò ad organizzare la struttura che avrebbe dovuto condurre l’operazione di eliminazione. In primo luogo fu individuata la sede dell’organizzazione: a Berlino, al centro dell’elegante quartiere residenziale di Charlottenburg, fu espropriata una villa di proprietà di un ebreo. Lo stabile si trovava al numero civico 4 in via Tiergartenstrasse. Proprio da questo indirizzo fu ricavato il nome in codice per l’operazione di eutanasia: “Aktion T4“. Questo programma, che contò circa 70.000 vittime, aveva lo scopo di eliminare le cosiddette “vite indegne di essere vissute” per “epurare la razza” e diminuire le spese statali derivanti dalle cure e dal mantenimento nelle strutture ospedaliere, in un momento in cui le priorità economiche erano rivolte al riarmo dell’esercito della Germania. Tramite censimenti e questionari venivano decise le persone da eliminare e trasportate in uno dei sei centri di eliminazione: Grafeneck, Bernburg, Sonnenstein, Hartheim, Brandenburg, Hadamar. In questi istituti erano state predisposte camere a gas camuffate da sale docce e forni crematori per l’eliminazione dei cadaveri. Ai pa- renti veniva inviata una lettera standard che annunciava la morte per una causa qualsiasi. Si avvertiva che per ragioni sanitarie il cadavere era stato cremato e si avvertiva che l’urna con le ceneri era a disposizione. A causa delle numerose proteste – come quella della Chiesa cattolica – il 24 agosto 1941 Hitler ordinò la sospensione del Programma. Il personale impiegato, grazie alle «esperienze» accumulate nell’uccisione tramite gas, venne dopo poco utilizzato per attuare la «soluzione finale della questione ebraica»; molti di loro raggiunsero posizioni di comando all’interno dei campi di concentramento e di sterminio. Ma l’Aktion T4 non si fermò mai completamente; nonostante la sospensione ufficiale l’uccisione dei disabili proseguì, seppur in maniera meno sistematica, fino al termine del conflitto.

Il contesto: Questa è la storia vera di Gerhard Herbert Kretschmar, che fu la prima vittima del programma di eutanasia nazista. Egli nacque il 20 febbraio 1939 a Pomssen, un villaggio a sud-est di Lipsia. I suoi genitori, Richard Kretschmar e Lina Kretschmar, erano convintamente nazisti. Il bambino nacque cieco, con una gamba e con un braccio ed era anche soggetto a convulsioni; per questo il padre portò il neonato al dottor Werner Catel , un pediatra della clinica universitaria per bambini di Lipsia, e chiese che suo figlio venisse soppresso. Il dottore gli rispose che questo sarebbe stato illegale così Kretschmar scrisse direttamente a Hitler, pregandolo di autorizzarlo a far sopprimere “questo mostro” (come descrisse suo figlio). Un membro della cancelleria decise di mostrare la lettera direttamente al Führer, consapevole del suo sostegno, spesso espresso, a concedere la “pietà della morte”. Hitler convocò Karl Brandt, uno dei suoi medici personali, e lo mandò a Lipsia con l’incarico di verificare le condizioni del bambino ed eventualmente praticare l’eutanasia, garantendo personalmente per la non punibilità del medico. Il bambino fu ucciso il 25 luglio 1939. Gli storici riconoscono questo caso come quello che consentì l’attuazione del programma di eutanasia che era stato preparato per mesi.

Mi chiamo Gerhard ed ero un bambino. Forse. Forse perché non assomigliavo propriamente a quelli che la gente chiama “bambini”; no, io ero originale e unico: sono nato senza una gamba, senza un braccio, il mondo intorno una caverna senza via di fuga. Già da quel 20 febbraio 1939, quando sono uscito alla vita, ho sentito il peso di questa originalità. Strillavo per la fame, avevo freddo, ma nessuna carezza mi scaldò, nessuna mano amica mi appoggiò al suo seno per nutrirmi. Non vedevo nulla, ma era come se vedessi tutto. Mia madre inorridita; mio padre incredulo e raccapricciato. Sentivo i loro pensieri: “ma come noi, noi che apparteniamo alla razza superiore, noi che rivendichiamo il diritto di conquistare il nostro spazio vitale e di dominare la terra nel nostro Reich millenario, noi alti e biondi e forti, noi abbiamo generato questo scherzo della natura, questo abbozzo deforme che umilia e offende la genia degli eletti?!” Mi sentivo in bilico come su una corda: instabile, precario; anche un soffio di vento avrebbe potuto buttarmi giù. I miei genitori sarebbero stati quel vento? Per loro non valeva la pena neanche di sperare, ero già morto e la mia era una vita indegna di essere vissuta. Bisognava fare qualcosa perché io non soffrissi, così convennero. Ma che ne sapevano loro se io soffrivo? Era la loro sofferenza e il loro disonorato destino che volevano azzerare attraverso il mio sacrificio e quel darsi delle giustificazioni altro non era che un misero palliativo per la coscienza. Ma ce l’avevano quei due una coscienza? “Il mostro”, così mi chiamava mio padre, e così ho sentito dire quando ha chiamato quel dottore ordinandogli di darmi “la dolce morte”. Non ne ha voluto sapere, tuttavia; più per la paura di incorrere in qualche reato che per riconoscermi come un essere umano. Ma mio padre non si è arreso e ha scritto direttamente al capo, all’uomo nero che comandava tutti quegli altri vestiti di nero, che erano più neri del mio sguardo spento. E l’uomo nero ebbe pietà di me. In verità, ne avrei fatto volentieri a meno. Qualche giorno dopo un altro dottore venne inviato a gestire e risolvere il mio pietoso caso. I miei genitori lo lodavano e lo trattavano con grande rispetto; gli chiedevano, lo imploravano di “sopprimermi”. Ah, ecco, pensai, allora non vogliono uccidermi, ma solo sopprimermi. Chissà che vorrà dire; chissà perché si sono così rianimati all’idea di procedere alla mia soppressione. Poi ho capito che anche quella era una parola ipocrita e serviva a rendere accettabile la morte, a mascherarla di falsa benevolenza, di asettica e scientifica neutralità. Come se le parole potessero sostituire i fatti, ammorbidirne l’impatto. Intanto, quell’uomo mi maneggiava come se fossi una cosa inanimata: il suo tocco era freddo e distaccato. Ad un certo punto lo sentii aprire la sua valigetta, maneggiare degli oggetti, fino a che non percepii la punta di un ago penetrare nella mia pelle. Un senso di spaesamento invase quel mio corpo anomalo, un tepore ovattato in cui fluttuavo leggero, le voci lontane che sfumavano in dissolvenza. Tutto era lontano ed ero solo: non c’erano i miei genitori, non c’era il dottore, non c’erano le mie malformazioni; c’ero solo io, ma ero ancora lì, in quella stanza. Poco dopo non ero più neanche lì, non ero più. Nel nulla che adesso mi avvolge più volte mi sono chiesto come possano una madre e un padre permettere che questo succeda, desiderarlo, volerlo. Per mesi sono stato tutt’uno con quella donna , parte di lei: come ha potuto rinnegarmi? E quell uomo che avrebbe dovuto proteggermi, come ha potuto chiamarmi “mostro”? Un giorno, forse, ci incontreremo di nuovo e allora, cari genitori, mi dovrete delle risposte. Non ora, tuttavia. Non voglio che la memoria della mia breve vita susciti la pietà di chi pazientemente insieme a me l’ha ripercorsa. Voglio, invece, che rappresenti una sorta di grimaldello con cui forzare le coscienze dormienti: imparate ad apprezzare ciò che vi circonda, voltate lo sguardo verso chi avete accanto, non vivete più ciechi di quel che fossi io. Cercate di comprendere quale sia il bene autentico senza confonderlo con ciò che fa star bene voi stessi, custodite e amate la realtà che vi circonda nelle sue tante sfumature di senso, nelle sue eterogenee manifestazioni piuttosto che scambiare le differenze per anomalie abiette. Guardate il mondo con occhi pieni di meraviglia, sorprendevi sempre di ciò che è intorno a voi, perché anche il più piccolo particolare nasconde in sé profondità che gli restituiscono valore. E se volete capire chi veramente io sia stato, non immaginatemi senza una gamba o senza un braccio, ma come un semplice bambino, un bambino originale e unico. Ricordate che ci possono essere persone che non camminano, persone che non vedono, persone che non sentono, ma soprattutto e sempre ci sono persone.

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Shaurya

La Storia: Il problema della fame ha riguardato l’India e, più in particolare, la regione del Bengala da secoli. Un peggioramento decisamente più drastico di tale piaga, tuttavia, ebbe luogo con l’inizio del dominio coloniale inglese. Durante i centonovanta anni di saccheggio e di sfruttamento per mano britannica, il subcontinente indiano subì una dozzina di grandi carestie, che nel loro insieme uccisero decine di milioni di indiani di ogni regione. Quanti milioni di indiani perirono in questo modo non è facile da stimare con esattezza, tuttavia i dati forniti dai dominatori britannici indicano che potrebbero essere sessanta. Ovviamente, la cifra reale potrebbe essere di gran lunga superiore. I britannici, impegnati nelle guerre in Europa (e altrove) e nell’impresa coloniale in Africa, esportarono grandi quantità di grano dall’India per sostenere le proprie operazioni militari, causando così la penuria di cibo della penisola indiana . Gli abitanti che si trovarono a vivere nelle zone colpite dalle carestie vagavano senza meta in cerca di cibo, ridotti a scheletri ricoperti di pelle, e morivano a milioni. L’ultima grande carestia sotto l’occupazione inglese ebbe luogo tra il 1942 e il 1945, nella regione del Bengala (oggi in parte appartenente all’India ed in parte al Bangladesh). Questa penuria di cibo provocata dalla guerra contro il pericolo giapponese e dalla catastrofe dell’inondazione potrebbe non essere stata sufficiente, da sola, a scatenare una carestia tanto enorme, tale da condurre 4 milioni di persone alla morte per fame. Si trattò in realtà di una combinazione di diversi fattori a provocare la catastrofe, della quale portano la responsabilità principalmente le autorità inglesi di occupazione. Gli inglesi non riconobbero mai la carestia come tale e continuarono a rifiutarsi di introdurre ogni misura di aiuto necessaria al miglioramento della situazione. A una richiesta urgente di cibo per l’India, l’allora primo ministro inglese Winston Churchill rispose brutalmente: “Se davvero il cibo è così scarso, per quale ragione Gandhi non è ancora morto?” Questa miopia propria della mentalità eurocentrica e coloniale, che nei secoli aveva giustificato l’abuso sui popoli conquistati come “fardello dell’uomo bianco”, ha generato e preservato il pregiudizio razzista in Occidente per tanto tempo.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Shaurya, uno tra le centinaia di migliaia di bambini uccisi dall’atroce carestia che colpì la regione indiana del Bengala tra il 1942 e il 1945. Correva l’anno 1942 quando la regione indiana del Bengala vide l’inizio dell’ennesima carestia. Shaurya all’epoca aveva solo sette anni, era un bambino forte, dal fisico asciutto ma allo stesso tempo atletico, vigoroso. La più grande forza di Shaurya, però, era quella interiore: i casi del destino l’avevano reso più saldo di una roccia. All’età di solo cinque anni, infatti, aveva perso il padre Balraj, ammalatosi di tubercolosi, e solo un anno dopo era morta anche la sorellina più piccola Manju. Shaurya si era, in così poco tempo, ritrovato solo con sua madre Amshula, e all’età di sei anni aveva dovuto iniziare a lavorare in una piantagione di tè per poter vivere. Nonostante tutto quello che aveva passato, tuttavia, non perse mai il sorriso e la vitalità che lo avevano sempre contraddistinto. Shaurya viveva in una poverissima casa di Murshidabad, piccola città del Bengala occidentale. La vita del piccolo bambino venne sconvolta nuovamente nel 1942 quando le sorridenti strade della città, a causa della grave penuria di cibo, cominciarono a esibire uno spettacolo atroce: uomini, donne, bambini, anziani, riuscendo a stento a tenersi in piedi, vagavano senza meta, ridotti a pelle ed ossa. Il governo britannico, nonostante le innumerevoli e ripetute richieste di aiuto da parte del popolo indiano, rimase indifferente lasciando la popolazione ad un destino terribile. La situazione degenerò di mese in mese ed anche il piccolo Shaurya fu costretto a lasciare che la fame cancellasse il suo sorriso, il suo coraggio, il suo entusiasmo, così che rimanesse solo un mucchietto di ossa, dure e fredde come la morte. Shaurya, “il coraggioso”, morì nel 1943, quando aveva solo otto anni. Al momento della morte pesava tredici chili, circa la metà del peso minimo di un bambino della sua età. Sua madre, invece, riuscì a sopravvivere alla terribile carestia, che terminò nel 45′, vivendo il resto della sua vita sola, immersa nella disperazione e nel doloroso ricordo dei suoi familiari defunti.

Cara madre, ti ricordi di me ? Ti ricordi di papà e della piccola Manju? So che te ne ricordi, sono sicuro che ci pensi costantemente. Ti ricordi della carestia, dell’atrocità di quella fame che ci ha tolto la vita? Senza dubbio il tuo corpo e il tuo spirito non lo scorderanno mai. No, mai. Sofferenze come quelle che abbiamo vissuto non si possono dimenticare, nemmeno la morte può cancellarle. E’ proprio un simile dolore che mi spinge a scrivere questa lettera, con la quale intendo rappresentare, a chi non l’ha vissuto, l’orrore della carestia e l’intrinseco disprezzo inglese verso il popolo indiano, affinché attraverso questa mia testimonianza si possa capire e tramandare alle generazioni che verranno l’importanza e il dovere morale di imparare a prevenire e contrastare quell’innato senso di superiorità nei confronti del diverso – “selvaggio” e “inferiore”, come stigmatizzavano gli inglesi – che porta l’uomo ad azioni di irrazionale intolleranza incomprensibilmente atroci. Nel 1942, quando la carestia mostrò di nuovo la sua terribile faccia alla mia città, avevo solamente otto anni. Ero un bambino innocente, non sapevo leggere né scrivere, non ero mai andato a scuola; la vita quotidiana era la mia scuola, il lavoro nella piantagione l’orizzonte del mio consueto esistere. Ero segregato nella mia ignoranza, che non mi permetteva di pensare criticamente, di prendere una posizione su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato; ma nonostante tutto ero un bambino sveglio, astuto, curioso, pieno di interrogativi. Di fronte alla disperazione della mia gente, a quei visi consumati fino all’osso dalla fame, a quegli occhi ormai privi di vita e di speranza, a quelle donne derubate del proprio seno, della propria elegante femminilità, a quegli anziani scavati nell’addome, scheletrici, non potevo fare a meno di chiedermi perché: perché solo noi indiani siamo ridotti in questo stato di disumano strazio, perché gli uomini bianchi sono così in salute, tanto vigorosi e robusti, talora persino da esibire nel corpo l’eccesso della loro opulenza? Eppure, mi dicevo, viviamo nello stesso territorio: la carestia dovrebbe colpire tutti, che siano indiani o inglesi; non dovrebbe guardare il colore della pelle o i tratti somatici, non dovrebbe fare distinzioni. Continuavo a non capire. Per quanto potessi essere perspicace, non riuscivo a comprenderne il motivo. Cara mamma, da questo mio stato di sospensione fluttuante sono finalmente riuscito a cogliere ciò che mi sfuggiva allora, come ci vedevano quegli inglesi. Il loro “fardello”, come declamava quel famoso poeta; uomini selvaggi, geneticamente inferiori, bestie da civilizzare. La nostra vita non era importante per loro, non provavano pietà nel vederci ridotti a fantasmi macilenti, nel vedere milioni di uomini, donne, bambini morire per le strade a causa della mancanza di cibo e acqua. Noi eravamo le bestie, la carne da depredare, sfruttare e macellare. Perché sacrificare il proprio Paese, la stirpe vittoriosa che ne era prole, per riconoscere diritti a dei miserabili reietti? Infondo tutti abbiamo ucciso con fatale indifferenza centinaia di formiche, di pesci, di larve della terra. Il mio nome significa “coraggioso”. Esorto tutti coloro che leggeranno questa lettera ad esserlo: siate coraggiosi, opponetevi con forza a ogni macabra mentalità discriminatoria, a ogni profondo odio per il diverso. Solo così riscatterete la mia vita e restituirete dignità alla vostra.

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Paolo

La Storia: Le foibe sono cavità di origine naturale con un ingresso a strapiombo, tipiche della regione carsica e dell’Istria che, sfortunatamente, non sono conosciute solo per la loro bellezza e unicità ma per una serie di massacri perpetrati dai partigiani jugoslavi a spese degli italiani – non solo fascisti – che furono catturati tra il 1943 e il 1947. La repressione mussoliniana di sloveni e croati, attuata nei Balcani dopo l’occupazione militare del 1941 (che vide per la prima volta usare proprio dai fascisti le cavità del terreno per nascondere le vittime slave), finì per fomentare la resistenza antifascista anche in Istria, la terra che l’Italia aveva acquisito dopo la I Guerra mondiale e le cui coste, in particolare, erano ampiamente popolate da italiani. La lotta politica contro il fascismo si innestò così sulla contrapposizione italo-slava: un antico e secolare conflitto, che aveva radici sociali (gli italiani costituivano la maggioranza del ceto urbano, gli slavi erano più presenti nelle campagne), ma che fi poi esasperato dai veleni nazionalistici e aggravato dalla politica oppressiva del duce. Una prima fiammata di violenza a sfondo etnico colpì le comunità italiane dell’Istria dopo l’8 Settembre 1943. Quando poi, nella primavera del 1945, l’esercito di Tito arrivò a Trieste, una ancor più grave ondata di violenza interessò la regione giuliana. Anche se le fonti restano discordanti, si può asserire che 10000 furono gli arrestati e i più non fecero ritorno. Molte delle vittime di questa violenza, appunto, furono gettate, in certi casi ancora vive, nelle foibe. La persecuzione continuò fino alla primavera del 1947, quando venne fissato il confine tra Italia e Jugoslavia. Dal momento in cui il confine viene fissato, però, poiché Istria e Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia, almeno 350000 persone che si sentivano italiane diventano straniere e continuano le persecuzioni ai loro danni, finché in migliaia non si riverseranno in Italia come esuli.

 Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile del bambino Paolo, fiumano di 6 anni infoibato dagli jugoslavi nel 1945 nella foiba della Ciceria. In effetti, di recente i resti di circa 130 persone sono stati ritrovati in quattro foibe della Ciceria, nell’Istria nord- orientale, come conferma al quotidiano polese «Glas Istre» Alan Bosnar, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’università fiumana, dov’è stata completata la parte tecnica della perizia delle ossa esumate nelle foibe di Hribce, Brsljanovica, Krog e Trstenik. Secondo Bosnar vi si troverebbero presumibilmente anche resti di un bambino. Immaginiamo, allora, che Paolo sia stato quella giovane vittima della follia degli jugoslavi e che la sua famiglia sia stata tutta sterminata perché italiana . Paolo e la sua famiglia, una volta uccisi, sarebbero stati gettati nella cavità della terra senza un briciolo di pietà e lì, in mezzo a tanti altri, sarebbero rimasti, dimenticati da tutti per decenni.

Mi chiamo Paolo e ero un bambino. Forse la mia sorte dipende dalla data tragica della mia nascita, il primo settembre del 1939. Sia chiaro, a me interessava solo nutrirmi del latte di mamma e non avevo idea di cosa volesse dire la guerra. Lo imparai, tuttavia, molto presto. In fondo, io non ho conosciuto altro stato. Ero nato a Fiume, anche se molti continuavano a chiamarla Rijeka. Non i miei genitori, che si sentivano fieramente italiani. Mio padre aveva salutato con gioia, da ragazzo, l’arrivo delle truppe dannunziane e il periodo della Reggenza del Carnaro, partecipando alle adunate dei legionari in piazza Dante e cantando insieme a loro “Giovinezza” e gli inni patriottici degli arditi. E non gli era piaciuto, a mio padre, quell‟ articolo IV del Trattato di Rapallo che ci trasforma in Stato libero di Fiume. Così aveva festeggiato il Trattato di Roma del „24, dove veniva sancita l’annessione di Fiume all’Italia. Si era fatto cucire dalla nonna una grande bandiera italiana che il 16 marzo di quell’anno aveva sventolato dal terrazzo di casa al passaggio del re Vittorio Emanuele III. Tutte queste informazioni non le ho certo imparate da me, perché la mia vita è stata troppo breve; le conosco adesso attraverso l’inventiva di chi è tornato a darmi voce un’ultima volta. La mia era una città bellissima perché era tutto doppio: c’erano due lingue, due culture, due tradizioni. Solo che questa abbondanza non contribuiva ad arricchire, semmai creava forti tensioni; e questo da tantissimi anni. Prima che io nascessi il babbo era riuscito a far carriera all’interno della fabbrica di siluri (mansione, questa, che gli consentì di rimanere a casa durante la guerra) e, come lui, molti italiani di Fiume si erano arricchiti. Quegli altri, i croati, invece avevano subito la sorte opposta, perché non si volevano adeguare alla superiorità di Roma, non accettavano di italianizzare i loro cognomi, di parlare esclusivamente la nostra lingua. Si diceva che molti di loro fossero stati fatti sparire, altri spostati in modo coatto altrove. Ma quando venni al mondo il problema era un’altro: entrare in guerra a fianco del Reich per vincerla e ricavarne onori e vantaggi. Mio padre non vedeva l‟ora che Mussolini si decidesse e il 10 giugno del 1940 stappò la bottiglia di spumante destinata al mio primo compleanno. La mia breve vita testimonia che la guerra, quella maledetta guerra, non portò nulla di buono. Nell’aprile del ‟41 gli alleati tedeschi invasero la Jugoslavia per risolvere la questione balcanica a favore dell’Asse: non avevo ancora due anni, ma percepii il sollievo sui volti dei miei cari. I mesi passavano e io mi facevo sempre più grande. Cominciavo a preoccuparmi nel vedere il cibo scarseggiare sulla tavola e, soprattutto, mio padre e mia madre oppressi da un’angoscia crescente. Dal giorno che loro chiamarono del tradimento, una settimana dopo il mio quarto compleanno, Fiume divenne una città occupata dai tedeschi, che tuttavia si avvalevano della collaborazione degli italiani per amministrarla. Ma gli altri, quei croati dell‟altra lingua, cominciarono ad approfittare dell’andamento della guerra per militare all’interno dell’esercito partigiano e comunista di un certo Josip Broz. Si faceva chiamare “Tito”, che a me pareva un nome innocuo e simpatico, mentre invece i miei genitori tremavano al solo sentirlo pronunciare. Gli ultimi due anni della mia vita li ho praticamente trascorsi in casa o vivendo nascosto. Avrei voluto tanto correre per le strade della mia città, fare amicizia con gli altri bambini e giocare con loro, perché a me non interessava che fossero di una nazione o di un’altra, non mi interessava l’idea politica dei loro famigliari; mi pareva molto più importante ciò che ci univa da ciò che ci divideva. E senz’altro ci univa la voglia di vivere, di divertirci, di conoscere il mondo. Nei primi giorni di maggio del ‟45, comunque, questo Tito rivendicò la vittoria su Fiume e compresi che per noi italiani la guerra non era affatto finita. Avrei dovuto iniziare la scuola quell’anno, se gli uomini non si fossero appunto lasciati travolgere da questo strano gioco da grandi che chiamano guerra. Avrei tanto desiderato imparare a scrivere, in italiano e in croato, o anche in serbo, o in qualsiasi altro idioma. Invece una notte d‟agosto di quell’anno un gruppo di patrioti titini (così si facevano chiamare) bussò alla nostra porta. Ci portarono lontano, o a me parve così, dato che non avevo avuto la possibilità di spostarmi da Fiume. Ci portarono sui monti, degli strani monti rocciosi e brulli che vedevo per la prima volta. Ricordo ancora lo sguardo dolce di mia madre, che mi teneva per mano in quell‟ultima strana gita; ricordo la dignità di mio padre, che nonostante chiamassero “traditore” non perse il suo coraggio. Mi servì per non piangere. Poi fu un rumore assordante e il buio intorno. Poi per troppo tempo di noi si perse persino la memoria.

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Zlata

La Storia: La storia del primo eccidio da parte degli uomini del battaglione 101 è stata recentemente ripresa in considerazione perché due importanti storici, Browning e Goldhagen, hanno potuto ricostruire la vicenda tramite le documentazioni degli interrogatori che si sono svolti in Germania dal 1962, facendo emergere una fondamentale domanda: per quale ragione uomini comuni, senza un particolare coinvolgimento nel regime nazista, che ebbero la possibilità di scegliere, decisero di partecipare alle esecuzioni? Il battaglione 101 fu costituito nel settembre del 1939 ed era formato prevalentemente da agenti di polizia in servizio. Esso operò dal dicembre del 1939, in Polonia, controllando le zone occupate e sorvegliando prigionieri di guerra e impianti. Successivamente ritornò ad Amburgo dove sviluppò compiti di polizia, e tornò in Polonia nel maggio del 1940 per svolgere prevalentemente la funzione d’evacuazione forzata dei polacchi dalla regione di Posen. Il 20 giugno 1942 iniziò il terzo turno in Polonia che si protrasse fino all’inizio del 1944, sempre nella regione di Lublino e in questa fase vennero compiute le stragi della popolazione ebraica polacca. Il battaglione 101 era composto dallo stato maggiore e da tre compagnie, circa 500 uomini per la maggior parte di Amburgo e delle zone circostanti. Esso era comandato dal maggiore Wilhelm Trapp, un veterano della prima guerra mondiale che aveva fatto carriera nella polizia. Il battaglione era armato alla leggera: disponevano infatti di quattro mitragliatrici per compagnia, sostenute dalle carabine individuali. Esso disponeva di mezzi di trasporto propri e non dati in dotazione, quali camion, biciclette che erano utili nei servizi di pattuglia. Gli uomini che costituivano il battaglione non erano volontari ma riservisti, persone chiamate al servizio di leva tra il 1939 e il 1941, precedentemente non avevano fatto mai parte di strutture militari o di sicurezza. Il 13 luglio del 1942 il battaglione 101 entrò nella piccola cittadina di Jozefow. Il maggiore Trapp spiegò i dettagli del loro compito ai suoi uomini: uccidere gli ebrei, selezionare i più forti ed eliminare tutti gli altri. Il massacro fu terribile e i tedeschi si dimostrarono molto rigorosi e decisi: prelevarono le persone dalle proprie case ed uccisero chi non si poteva muovere, tutti gli altri ebrei vennero condotti nel bosco, costretti a sdraiarsi 40 alla volta. Ognuno dei 40 era bersaglio di un poliziotto, il quale aveva il compito di uccidere sparando un colpo di pistola alla testa. Le vittime furono circa 1500. Fra il 13 luglio 1942 e il 5 novembre 1943 gli uomini del battaglione rastrellarono e assassinarono una per una circa 38000 persone in Europa orientale, e parteciparono al rastrellamento e alla deportazione a Treblinka di altri 45000 ebrei. Eppure gli uomini del battaglione 101 non erano nazisti convinti, non erano giovanissimi, tutti avevano lavoro e famiglia: erano, appunto, uomini comuni. Uomini comuni a cui venne persino chiesto se intendevano non partecipare al “lavoro sporco” di eliminazione degli ebrei: solo pochi, pochissimi si rifiutarono. Nell’arco di qualche mese, anzi, praticamente tutti i membri del battaglione parteciparono agli eccidi. Al processo che si terrà contro di loro un imputato ammetterà spudoratamente di aver agito per pietà, mosso dalla sua coscienza morale: «Tentai di uccidere solo bambini e ci riuscii. Siccome le madri tenevano i bambini per mano, il mio vicino uccideva la madre e io il figlio, perché ragionavo tra me che dopotutto, senza la madre, il figlio non avrebbe più potuto vivere. Il fatto di liberare i bambini che non potevano più vivere senza le madri mi pareva, per così dire, consolante per la mia coscienza»

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di una bambina ebrea di Jozefov, di nome Zlata. All’inizio dell’estate del 1942, gli abitanti della cittadina di polacca iniziarono a capire via radio che a breve le armate si sarebbero scagliate contro i cittadini ebrei polacchi. Il 13 luglio dello stesso anno arrivò in questa città il battaglione 101, dopo essere passato da altri centri abitati polacchi per sterminare gli ebrei. Una fra le tantissime vittime innocenti immaginiamo sia una bambina di soli 7 anni, di nome Zlata. I genitori, allorché era cominciato il rastrellamento dei tedeschi e si erano uditi i primi spari, avevano tentato di rassicurare la bambina, facendola nascondere nella soffitta della casa. Ma, a causa del tradimento di un polacco che era stato loro amico, vennero individuati tutti e trasportati in un bosco vicino Jozefow insieme a molte altre persone. La povera Zlata era inconsapevole di quello che stava accadendo intorno a lei, vedeva soltanto persone disperate che venivano divise dai propri familiari e accompagnate chissà dove. Su una radura dove era solita giocare fu costretta a fermarsi e lì, in mezzo ai corpi esanimi della sua gente, si concluse la sua breve vita. Gli omicidi efferati e barbari terminarono solo con l’eliminazione di tutti gli ebrei di Jozefov. Dopo di che, il battaglione 101 si spostò altrove, lasciando dietro di sé una tragica scia di morte.

Mi chiamo Zlata ed era una bambina. Sono nata a Józefów, un villaggio della Polonia, e ho vissuto sette anni. La guerra imperversava oramai da quasi tre quando ne sperimentai l’atroce volto. Fino ad allora, nonostante le raccomandazioni dei famigliari, mi ero impegnata a vivere le mie giornate come se nulla fosse, come se gli spari in lontananza, le notizie che circolavano sulla possibile resa dell’Unione Sovietica e la conseguente vittoria tedesca non mi riguardassero. E’ difficile per una bambina rinunciare allo stupore con cui guarda il mondo, per me in particolare era impossibile, perché ero nata con questa smania di riconoscere la meraviglia delle cose, di individuarne l’anima splendente. Così, anche se per gli altri la mia famiglia era povera, io sapevo che era al contrario ricca: ricca della capacità di amare, di sentirsi parte dell’opera del creato; ricca nella devozione a Yahweh che sino ad allora l’aveva preservata dal male. Nonostante la guerra, insomma, io avevo fiducia nell’uomo plasmato con la polvere del suolo e fatto a immagine e somiglianza del suo creatore, nell’uomo che ne aveva ricevuto dalle narici l’alito di vita divenendo essere vivente. Poi fu l’alba del 13 luglio del ’42. Arrivarono la mattina presto, ma non erano soldati dell’esercito, nonostante le divise sembravano uomini comuni. Questi, mi dissi, non possono farci del male, perché non hanno la vocazione del militare che combatte irragionevolmente per un ideale; avranno lasciato a casa moglie, figli, mi dissi, e non vedranno l’ora di riabbracciarli. Guardavo stupita dalla finestrella della soffitta: i tedeschi passavano al setaccio le case del ghetto, in piccole pattuglie di due o tre uomini. Sentivo le urla, sentivo gli spari. Avevano ricevuto un ordine preciso: “Nel corso dell’evacuazione i vecchi, i malati, i neonati e i bambini piccoli che opponessero resistenza dovranno essere fucilati sul posto”. Io allora non lo sapevo, ma era questo l’ordine. E lo eseguirono con scrupolo. Fu così che vidi il piccolo Hersh, nato appena un mese prima, sollevato per una gamba da uno di quegli uomini, ucciso senza pietà e lanciato su un mucchio di corpi ai margini della strada, così come una foglia secca lasciata a marcire. E vidi Yehudit, sua madre, strapparsi i capelli davanti a quell’uomo e infine scagliarsi su di lui per poter ricevere nel petto la pallottola vicina a quella che si era presa il suo bambino, in quel petto che fino a poche ore prima lo aveva protetto e nutrito. Fu difficile obbedire all’ordine di mio padre, che era quello di stare ferma e non fiatare qualsiasi cosa avessi visto o sentito. I tedeschi non furono contenti di quel primo rastrellamento e tornarono dopo poco a setacciare le case del ghetto. Fu Franciszek, il fornaio polacco amico di famiglia, a indicare col dito verso il mio rifugio, verso i miei occhi increduli e spaventati. Ci radunarono nella piazza del mercato e lì vennero selezionati gli Arbeitsfahigen, per essere deportati nel campo di lavoro presso Lublino: i miei genitori erano nel mucchio. Io rimasi con gli altri e furono del tutto inutili i tentativi di ricongiungerci. Cercavo disperatamente di trovare intorno a me qualcosa che sollecitasse la mia fantasia e alimentasse il mio stupore. Provai a immaginare quel tedesco robusto che dava ordini davanti al caminetto mentre raccontava una favola al figlio ed ero quasi riuscita a renderlo umano quando lui disegnò sul terreno, perché tutti potessero vedere, il profilo di un torso umano, segnando sul collo il punto al quale dovevano spararci. Come se si trattasse di tagliare una pianta o di mungere una mucca. Nessuna differenza. Poi cominciammo a marciare verso il bosco di betulle dove mi piaceva rincorrere farfalle o ascoltare il cinguettio degli uccelli. Era strano: nulla era cambiato eppure tutto lo era. Accanto a me uno di loro, che ogni tanto mi sorrideva. Ma non era un ghigno ironico, no; era un sorriso sincero, delicato e dolce come quello di un padre. Lo vedi che siamo uguali? mi dicevo. Lo capisci che sono una bambina, che ho una vita intera davanti a me e tu tra poco diventerai colui che me la strapperà via per sempre? Ma anche l’ultima speranza svanì davanti alla radura dei ranuncoli ricoperta già in buona parte di corpi scomposti e sfigurati. Tutti, ci uccidevano tutti. Senza pietà, senza compassione, senza un barlume di misericordia. E non per ubbidire agli ordini, perché era stata data loro la possibilità di non partecipare al massacro, eppure solo in pochi avevano rinunciato. E’ mai possibile che anche i nostri carnefici, con le divise luride e insozzate dalla nostra carne, dai nostri umori, dal nostro sangue, siano stati impastati da Yahweh e ne abbiano ricevuto il soffio? Fu questo il mio ultimo pensiero e ancora oggi, in verità, non ho trovato alcuna risposta.

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Rhuma

La Storia: L’Afghanistan, dopo aver resistito per secoli alle pressioni coloniali russe e inglesi, dopo il regno dei Safavidi diventerà colonia britannica fino al 1919 quando guadagnerà l‟indipendenza come regno dell’Afghanistan sotto il comando del re Amānullāh Khan dopo una serie di guerre contro la corona inglese. Questo operò per mettere fine al tradizionale isolamento del paese e per modernizzarlo. Gli successe Nadir Shah, che portò avanti la politica precedente fino al suo assassinio nel 1933. Sotto Mohammed Zahir Shah l’Afghanistan visse uno dei periodi più lunghi di stabilità: durante questo periodo rimase neutrale e non partecipò alla seconda guerra mondiale, né si alleò con i blocchi di potere durante la Guerra fredda. Ma mentre il re si trovava in Italia, nel 1973, il cugino del re, Mohammed Daud Khan, organizzò un golpe incruento dando vita alla fragile Repubblica afghana, poi soppiantata nel „78 dalla Repubblica Democratica. Dal 1979 la classe dirigente era però sospettata di legami con la CIA e perciò nel 1979 l‟URSS entrò a Kabul. La guerra contro i sovietici terminò nel febbraio del 1989. Dal 1996 al 2001 prese il potere la fazione dei talebani, che applicarono al paese una versione estrema della shari’a e ogni deviazione dalla loro legge venne punita con ferocia. Dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti decisero di invadere l’Afghanistan, dando il via all’operazione “Enduring Freedom” (Libertà Duratura) che si poneva come obiettivo la fine del regime talebano e la distruzione dei campi di addestramento e della rete terroristica di Al-Qaeda. È all’interno di questo clima di profonda instabilità e di guerriglia permanente che si sviluppa la feroce pratica del traffico internazionale degli organi. Nel periodo successivo alla guerra migliaia di bambini tra i 4 e i 10 anni vengono rapiti e usati come veri e propri pezzi di ricambio per essere poi abbandonati sul ciglio delle strade dopo aver espiantato i loro organi, poi venduti al mercato nero a ricchi malati benestanti disposti a pagare decine di milioni per potersi sottoporre a un trapianto e continuare a vivere.

Il contesto: Questa è la storia vera della piccola Rhuma, nata nell’ottobre del 1996 da una famiglia del popoloso quartiere di Shas Darak, non lontano da Kabul, nel pieno centro dell‟Afghanistan. La piccola Rhuma vive un’infanzia tranquilla, non diversa da quella di nessuno degli amici con i quali ogni giorno va a giocare fuori. Nello stesso modo anche il padre vive una vita normale e con il poco denaro ricavato dal suo lavoro da commesso riesce a mantenere la famiglia. Ogni giorno va a lavorare e ogni giorno è costretto a subire il disprezzo del vicino Yasser, un ricco intoccabile della cerchia di Osama bin Laden il quale non riesce a sopportare il colore della pelle di Akmad e della sua famiglia. Il fatto che il ricco signore fosse coinvolto in affari loschi e atroci non era nuovo per nessuno, ma Akmad non aveva mai sperimentato in prima persona niente di tutto questo. La situazione cambiò il 21 agosto 2001 giorno in cui Akmad si vide portare via la sua preziosa figlia. La bambina stava come tutti i giorni giocando per strada con gli amichetti quando ad un tratto si sentì il rumore di una macchina frenare bruscamente seguito da quello di un pianto disperato. Tutto il quartiere sapeva cosa questo significasse: un altro bambino era stato preso, e questa volta era toccato a Rhuma. Quel giorno i genitori della piccola si videro portare via il loro gioiello, la loro unica figlia femmina. Tutto il dolore provato nei 2 giorni successivi ritornò come moltiplicato quando nella sera del giovedì successivo la famiglia si vide lasciato davanti alla porta un sacco da terra pieno. Questo conteneva ciò che era rimasto del corpo di Rhuma, del quale era stato fatto scempio. Molti dei piccoli organi della bambina le erano stati strappati: il cuore, i reni e un occhio mancavano del tutto in quel corpicino scaraventato poi davanti alla porta di Akmad. Dopo essere stata rapita la bambina era stata uccisa e sventrata per ottenere organi giovani da rivendere al mercato nero, grazie ai quali Yasser e la propria organizzazione si sarebbero potuti arricchire.

Mi chiamo Rhuma e ero una bambina. La mia è una storia di violenza e soprattutto di dolore, il mio e quello dei miei genitori, che hanno dovuto sopportare la perdita della loro “piccola perla”, come mi chiamavano. È la storia di come prima di quel giorno fossimo solo una famiglia come tutte le altre, fatta di litigate e di baci, di giochi insieme e di ammonimenti; una famiglia che per me restava comunque la migliore del mondo nonostante vivessimo nella polvere di Shasdarak, ma che improvvisamente divenne soltanto “la famiglia della bambina rapita”. Niente di più. E’ vero che c’era quell’antipatico riccone di Yasser che non si stancava di esprimerci il suo disprezzo, ma nessuno si sarebbe aspettato che dovessimo poi soffrire tanto. Eppure è successo e, tutto sommato, credo che sia stato meglio così: in questo modo tale sofferenza non è stata procurata a qualcuno che non avrebbe potuto sopportarla, mentre io sono stata coraggiosa. L’uomo che mi ha strappato di mano la bambola e mi ha caricata sull’auto nera aveva provato a rassicurarmi: “sei speciale – mi aveva detto – diversa e speciale”. Stupidaggini! Come tutti quanti, anch’io avevo due braccia, due orecchie e una bocca; come lui avevo sangue nelle vene e se mi si feriva usciva rosso e brillante dalla carne. Ricordo che sul sedile dell’automobile ho pianto con disperazione e che ho urlato usando tutta la voce che avevo in gola. Speravo che così mio padre mi avrebbe sentita e mi avrebbe salvata, perché lui è forte e non avrebbe mai permesso che qualcuno mi portasse via. L’ho visto, mio padre, che correva verso di me, ma era troppo tardi. L’ho riconosciuto nonostante le lacrime e nonostante i sussulti della macchina che procedeva sempre più veloce verso la sua meta. E’ stato questo pensiero, di mio padre che correva, che mi ha accompagnato fino alla fine. Una fine che, voglio rassicurare la mamma, è arrivata velocemente, accompagnata dal solo dolore di un ago che punge. Lo so che questo la farà stare meglio perché lei si è sempre preoccupata quando mi facevo male e era triste quando piangevo. Io non mi sono accorta, poi, di quello che facevano di me, non ero più. Ma so che su questo mio corpo di bambina si sono accaniti come un branco di bestie fameliche, bestie col camice verde. Bestie al servizio di altre bestie, che solo perché hanno i soldi pensano di potersi comprare qualche anno di vita in più. Un po’ mi fanno pena, questi nababbi che non riescono ad accettare come l’esistenza umana sia una parentesi, un percorso a termine durante il quale la macchina che è il corpo si usura, si logora, si ammala. Mi fa pena la loro paura di invecchiare, di accettare il declino, di soffrire. Ma soprattutto mi fanno rabbia, perché coi soldi pretendono di aver diritto ai pezzi di ricambio, di aver diritto alla vita degli altri, anche a quella di noi bambini! Mi fa rabbia questa violenza inaudita che non trova giustizia, l’omertà di chi preferisce tacere o approfittare di un simile mercimonio. Tu lo dicevi, papà, che queste cose succedevano nel nostro Paese, di stare attenta; ma io ero troppo piccola e non potevo, o forse non volevo crederti. E poi c’erano i compagni, c’era la strada, c’erano i giochi. Ecco, a mio fratello vorrei ricordare che i miei giochi restano miei e che, anche se continuo a volergli bene e mi manca tantissimo, non li deve toccare. Io non sono quel mucchietto di resti che avete ritrovato in un sacco davanti casa; sono la Rhuma tutta intera nel corpo e nei pensieri che evocherete nel ricordo e quella Rhuma lì rivendica ancora dei diritti. E’, perciò, come persona vera che vi rammento ciò che ho imparato: forse più si cresce, più si dimentica la differenza tra le persone e le cose. Mi sento in dovere di ribadirla: le persone sono quelle alte o basse, di tanti colori diversi, che respirano, si muovono e che desiderano continuare a farlo; le cose sono gli oggetti inanimati e inermi, ai quali non importa essere usati o venduti per il profitto degli altri, perché loro i sentimenti non li provano. Io un oggetto non lo sono mai stata, nonostante qualcuno – tanti, troppi – mi abbiano pensata e trattata come tale.

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Ntare

La Storia: Nell’anno 1994, in un lasso di tempo di poco più di tre mesi, avvenne un terribile genocidio nell’Africa orientale, che costò quasi un milione di vite umane. Le cause di questo tragico evento sono dovute al conflitto ruandese fra l’etnia Hutu e l’etnia Tutsi ed è solo il culmine di numerose stragi che hanno origine nel 1916, quando l’Africa orientale fu colonizzata dai belgi. In realtà Tutsi e Hutu fanno parte dello stesso ceppo etnico culturale Bantu: lingua, religione e tradizioni sono assolutamente le stesse per entrambi i gruppi. Gli “Hutu” rappresentavano la maggioranza della popolazione, circa l’85% mentre i “Tutsi” erano solo il 14%. I Tutsi, seppure minoritari rispetto agli Hutu vennero integrati nell’amministrazione coloniale, come uomini di fiducia dei colonizzatori. Così in Ruanda venne introdotto il concetto di “razza”, che, per volontà dei belgi, giustificò nel 1933 la registrazione dell’etnia di appartenenza – Hutu o Tutsi – sui documenti di identità ruandesi. I media, e in particolare la radio, hanno contribuito enormemente ad alimentare l’odio e fomentare una guerra che ha causato il genocidio di oltre 800 mila vittime. Gli interessi economici (petrolio e minerali), l’irresponsabilità della classe politica e dei canali di informazione sono da ritenersi i maggiori responsabili di questo genocidio. Nel 1994 il Ruanda contava un numero nettamente maggiore di Hutu rispetto ai Tutsi e furono proprio i primi gli artefici del genocidio. Infatti, anche dopo l’accordo di pace firmato ad Arusha nel 1993, alcuni uomini d’affari vicini al generale Habyarimana fecero importare 581.000 machete dalla Cina per aiutare gli Hutu nell’uccidere i Tutsi, e addirittura “The guardian” ha rivelato che l’allora Segretario generale dell’ONU Boutros-Ghali aveva avuto un ruolo importante nella fornitura di armi al regime Hutu, facilitando nel 1990 come Ministro degli Esteri egiziano un affare da 18 milioni di sterline per armi che saranno utilizzate per perpetrare il genocidio. Per cercare di fermare la strage intervennero anche forze europee nell’Operation Turquoise del giugno del 1994, ma tale azione non ebbe esito positivo e l’etnia Tutsi continuò ad essere perseguitata e uccisa fino alla metà del mese successivo.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Ntare, un bambino di etnia Tutsi che è stato perseguitato e ucciso all’età di soli sei anni nel corso del genocidio del Ruanda nel 1994. L’etnia Tutsi al tempo si distingueva per la statura molto più alta degli Hutu e per il colore della pelle più chiaro, anche se oggi la differenza è molto più difficile da riconoscere. La caccia nei confronti dei Tutsi non fu solo ad opera dei miliziani, ma fu effettuata anche dagli altri Hutu e generalmente non prevedeva l’uccisione immediata. Uno degli aspetti più cruenti del genocidio era infatti la brutalità delle azioni contro i Tutsi: innanzitutto venivano utilizzati gli stessi mezzi usati contro gli uomini anche con donne e bambini e molto spesso prima dell’uccisione, effettuata con il machete, venivano tagliati gli arti. Questo atto aveva un grande valore simbolico, infatti in questo modo venivano annullate le differenze di statura che contraddistinguevano le due etnie e venivano poste sullo “stesso livello”, a differenza di quanto era accaduto all’inizio del secolo. In questo contesto infernale i bambini non erano minimamente protetti e coloro che non venivano uccisi vedevano morire la propria famiglia. Così Ntare vide cadere sotto i colpi della lama di un miliziano indemoniato prima i genitori, poi i due fratellini. Tentò di nascondersi sotto il letto, coprendosi con le vesti insanguinate dei famigliari, ma un tuono improvviso fracassò il mondo e lasciò spazio solo al nulla.

Il mio nome è Ntare ed ero un bambino. Sono nato sei anni fa in un villaggio di capanne – “rugo” le chiamiamo noi – ai piedi dei monti Virunga, ricoperti di foreste pluviali sulle quali si staglia, magnifico, il profilo del vulcano Karisimbi, alto più di 4000 metri. Ho sempre creduto di poter diventare alto anch’io, dato che appartenevo alla grande famiglia dei tutsi, ma così non è stato. Non ho mai odiato nessuno e non avevo paura delle persone, neanche dell‟altra famiglia, quella degli hutu, che da un po‟ di tempo aveva cominciato a considerarci come nemici. Mi piaceva correre e, per quanto ancora piccolo, non temevo di avventurarmi su per le montagne, alle pendici dei vulcani, vicino ai laghi Bulera e Luhondo, dove cresceva una fitta vegetazione: lì mi dondolavo sulle liane e, quando girava la fortuna, potevo individuare persino i grossi gorilla all‟interno dei boschi di bambù. Non mi facevano paura neanche loro, per quanto le madri diventassero cattive se si minacciavano i loro cuccioli. La mia, di mamma, non ha avuto neanche il tempo di mettermi al riparo, dato che la lama del machete le ha staccato le gambe impedendole di muoversi. Per loro, per gli hutu, era giusto toglierci quella dannata altezza che avevamo in più, riportarci a una giusta statura per ridimensionare i nostri privilegi. Ma io non mi sono mai sentito un privilegiato. I miei genitori coltivavano con fatica la terra e durante il giorno dovevo aiutarli. Non era semplice riuscire ad ottenere manioca, patate o sorgo: le piogge erano frequenti ma non bastavano a rendere fertile il suolo, così spesso andava irrigato, oltre che zappato. Ma non eravamo neanche poveri, dato che mia madre mi cucinava l’umutsima e mio padre le forniva in gran quantità le sardine del lago Kivu per preparare il sombé agli isamba. Il cibo che io prediligevo, tuttavia, era un altro: la squisita bistecca di zebra, che talvolta i bravi cacciatori del villaggio riuscivano a cacciare e che poi si spartivano. La mattina che vennero gli uomini bassi stavo ancora dormendo nel letto sotto la finestra insieme ai miei due fratelli più piccoli. Mi svegliarono bruscamente le urla delle donne, una sorta di richiamo d’allarme che ben presto si diffuse sull’altopiano. Fu allora che li vidi, vidi quelli dellinterahamwe, che in lingua kinyarwanda significa “coloro che lavorano insieme”. Stavano, in effetti, lavorando insieme al nostro massacro. Eppure io vi dico con l’ultimo fiato che questa lettera mi regala che hutu e tutsi parlavano la stessa lingua, praticavano la stessa religione, avevano gli stessi usi e costumi, vivevano perfettamente mischiati negli stessi villaggi e negli stessi quartieri urbani e non avevano alcuna netta distinzione somatica, come si pretese di dimostrare per giustificare l’orrore. Noi e loro abbiamo praticato nella storia indifferentemente agricoltura e allevamento, ed è un‟altra menzogna quella che racconta gli hutu un popolo di agricoltori oppressi dai pastori tutsi. Così come è una menzogna quella dell‟origine “camitica” – egiziana o abissina – dei tutsi, etnia malvagia di oppressori degli hutu, dipinti come gli abitanti “originari” dei Grandi Laghi. Quel che più mi sconvolge è che la falsa storia dell’invasione dei Grandi Laghi da parte di una popolazione estranea, i tutsi camitici, che opprime gli abitanti originari continua a circolare a più livelli, nonostante sia palesemente falsa e sia servita a dimostrare la necessità dello scontro tra queste presunte etnie. Ci sono dei momenti in cui si crede a ciò che è falso anche se si sa che è tale. Questa la follia dell‟uomo. Tutti sapevano e sanno, per esempio, che le menzogne contenute in quel testo europeo – “I protocolli dei savi di Sion”- erano un falso; era stato dimostrato inoppugnabilmente. Eppure per anni si è creduto al complotto ebraico contro l‟occidente, tanto che forse ancora oggi qualcuno lo ritiene plausibile. Ma torno alla mia capanna, al mio letto, al mio ultimo giorno da vivo. Dopo mia madre, vidi „abbassare‟ mio padre, che invano aveva tentato di difendersi. Allora capii che il destino non mi avrebbe fatto sconti. L’indemoniato hutu, armato di machete e di fucile, trapassò i miei fratelli e, senza pietà, individuò i miei occhi sbarrati sotto quel giaciglio tanto amato e me li chiuse per sempre. Non ho sofferto a lungo. Quello che, invece, turba il mio riposo di vittima innocente della barbarie umana è dover dare a tale barbarie non il volto dell‟altro (poiché, come dicevo, l‟altro non esiste) ma quello del mio simile, del mio amico di ieri che a un certo punto è voluto diventare ad ogni costo nemico.

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Micol

La Storia: All’inizio del 1944 vivevano in Ungheria circa 725 000 ebrei, la più grande comunità ancora esistente sul suolo europeo dopo l’annientamento di quelle dell’URSS e della Polonia. Il 19 marzo, temendo che gli ungheresi si sganciassero unilateralmente dal conflitto, Hitler ordinò l’occupazione del Paese; insieme all’esercito, giunsero a Budapest anche i funzionari dell’Ufficio incaricati di procedere alla deportazione degli ebrei dall’Ungheria. Trattandosi di una missione particolarmente complessa, la responsabilità venne affidata ad Adolf Eichmann in persona. Eichmann ,al corrente della fuga degli ebrei danesi, si rese conto che la deportazione poteva realizzarsi solo grazie all’assoluta complicità delle forze locali. Inoltre, memore della rivolta del ghetto di Varsavia, decise di lasciare per ultima la capitale, dove i problemi avrebbero potuto essere maggiori. Il 4 aprile 1944, nel corso di una riunione a cui parteciparono sia tedeschi che ungheresi, il Paese fu diviso in cinque zone (dalle quali fu però esclusa la capitale). Le operazioni di rastrellamento e deportazione avrebbero avuto inizio nelle province orientali; poiché erano le zone più vicine al fronte russo; le evacuazioni furono giustificate con ragioni militari. La cosiddetta zona 1 fu rastrellata a partire dal 16 aprile: 194 000 ebrei furono catturati e rinchiusi in ghetti e campi di transito. In totale vennero deportati circa 438 000 ebrei ungheresi, nell’arco di tre mesi. E’ difficile stabilire quanti di questi ebrei furono condotti a Birkenau; nella zona concentrazionaria di Auschwitz, comunque, arrivarono almeno 53 treni, ciascuno dei quali portava circa 3000 ebrei. Per far fronte ad un flusso così imponente di nuovi deportati, il campo di Birkenau fu dotato di una terza rampa ferroviaria.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Micol, una dei tanti bambini ungheresi che tra il 1944 e il 1945 hanno vissuto sulla loro pelle il trauma dei campi di sterminio. Quella di Micol non è una storia realmente accaduta ma è basata su fatti e episodi avvenuti in Ungheria. Micol nacque a Budapest nel 1936 in una famiglia ebrea molto numerosa. Soltanto nel maggio di due anni dopo in Ungheria entrò in vigore la prima legge antiebraica. I genitori, entrambi impiegati statali, non pensarono neanche minimamente di emigrare in Palestina perché troppo difficile e costoso. Vollero mantenere tutto come era sempre stato e cercarono di nascondere ai figli gli orrori della guerra e il pericolo che correvano ogni giorno. Non riuscirono a dire a una bambina di otto anni che presto non avrebbe più visto i suoi amichetti di scuola, che non avrebbe più frequentato le lezioni di danza, che non sarebbe più andata a giocare con i vicini, che non sarebbe più stata al sicuro fuori casa e che quegli uomini in uniforme che arrivavano continuamente nella sua città le avrebbero portato via tutto. Micol venne battezzata insieme ai due fratelli maschi nella speranza che questo avrebbe potuto salvarli dal loro destino crudele. Purtroppo però ogni tentativo fu vano. Prima la famiglia fu trasferita in una delle case con le “stelle gialle” e l’8 novembre 1944 insieme a altri 76000 ebrei fu costretta a marciare verso i campi in Austria. A quel punto anche i tre fratelli si resero conto che era l’inizio della fine. La fame, il freddo, le malattie causarono migliaia di morti durante il viaggio. I tre fratelli supportati dai genitori si fecero coraggio, ma purtroppo soltanto Micol e il fratello maggiore sopravvissero a questa “marcia della morte”. Insieme ad altri 1800 ebrei vennero deportati con il primo treno per Auschwitz dal campo di Kistarcsa, vicino a Budapest. Qui separata con violenza anche dal fratello maggiore, Micol si avviò impaurita e incosciente verso quelle docce fatali che avrebbero segnato la fine di milioni di vite.

Mi chiamo Micol ed ero una bambina. Amavo la vita che avevo e amavo vivere, ero ancora piccola per capire il mondo che mi circondava e non sapevo che quel mondo poteva essere tanto orribile quanto bello. Non pensavo, soprattutto, che gli uomini potessero essere intelligenti come malvagi e mettere l’intelligenza al servizio della malvagità. Credevo ingenuamente che il male prevedesse sempre un risarcimento e che dopo un litigio sarebbe bastato un sorriso e un pezzo di cioccolato per sistemare le cose. Mi sbagliavo. Ma dopo tutto avevo solo 8 anni quando ho smesso di vivere: non ho avuto tempo di crescere, di diventare una donna, una ballerina, di innamorarmi, di sposarmi, di fare dei figli; non ho avuto tempo di realizzare i miei sogni e nemmeno di averli. Tutto questo soltanto perché sui miei vestiti era cucita una stella gialla; soltanto perché il sabato andavo in sinagoga invece che in chiesa. A me sembrava di essere uguale a tutti gli altri bambini: avevo due braccia, due gambe, due occhi, sapevo leggere e scrivere, sapevo camminare, ballare e correre, mi piaceva andare a scuola e giocare. Eppure secondo loro ero “diversa”. “Inferiore”. “Da eliminare”. E’ per questo che un giorno degli uomini alti con l’uniforme verde ci hanno costretto a uscire di casa con il freddo e ci hanno fatto capire a gesti che dovevamo andarcene, dovevamo camminare. La loro lingua non la capivo, ma mi spaventava: le parole erano fredde come il metallo delle loro pistole e urlate con rabbia, una rabbia che non riuscivo a spiegarmi. A camminare eravamo in tanti, tutti quelli come noi che abitavano nel quartiere; eppure, via via che passavano i giorni nella marcia, il nostro numero diminuì drasticamente. Non mangiavamo; non bevevamo; non dormivamo né potevamo fermarci. Prima se ne andarono i vecchi, incapaci di sopportare a lungo quel tormento: la nonna si accasciò sul ciglio della strada e subito dopo sentii la voce della pistola; la sentii due volte, perché il nonno tentò di opporsi e il proiettile parlò per primo a lui. Ma dove ci stavano portando? Davvero volevano soltanto che lavorassimo per loro, come qualcuno sussurrava? Mio padre e mia madre ci lasciarono senza avere il tempo di salutarci, dato che non riuscivano più a parlare: scorsi subito le macchie rosse, poi i loro corpi abbracciati, appena prima di arrivare al treno che ci avrebbe portati via. Volevo piangere, ma le lacrime non uscivano più; volevo scagliarmi contro gli uomini in divisa, ma avevo troppa paura. E’ incredibile come si resti attaccati alla vita anche in mezzo alla morte; come l’uomo degradato, affamato, offeso, violentato non sia più un uomo e possa accettare tutto, ma proprio tutto, aggrappandosi alla sola speranza di sopravvivere. Ci fecero, dunque, salire sul treno, ma non era un treno normale. Non c’erano sedie o finestre ed eravamo tutti schiacciati l’uno contro l’altro; di nuovo senz’acqua, senza cibo, senza coperte, senza bagno. Io cercavo di ricordare la mia casa, la mia mamma, i miei giochi, la mia vita, ma ormai non avevo quasi più le forze per muovermi o solo pensare. Confondevo la realtà con gli incubi, o forse davvero la realtà era diventata un incubo. Con me era rimasto mio fratello Joseph, grande e forte, ma anche lui vivo a malapena. Scesi dal treno in mezzo ai latrati dei cani e alle bastonate di uomini in divisa nera. Nevicava, era di notte, ma si vedevano file sterminate di baracche e di reticolati, si vedevano le ciminiere alte che fumavano e si sentiva nel naso un odore acre, intenso, persistente, minaccioso. Joseph mi disse che presto saremmo stati di nuovo tutti insieme, avremmo rivisto mamma, papà, i nonni e saremmo tornati felici. Ero contenta, non vedevo l’ora: Joseph non diceva mai le bugie e io gli credevo; non me lo spiegavo come sarebbe successo, ma mi fidavo di lui. Ci divisero in file e la mia si diresse muta verso delle scale che sparivano nella terra; lì ci fecero spogliare per fare la doccia. Finalmente dopo tanto tempo sarei stata di nuovo pulita e profumata, questo il mio ultimo pensiero faticoso e stupido. Poi la luce si spense e le grida dei corpi nudi attorno a me annunciarono l’inferno: non acqua, né sapone, ma un’aria di morte che divorava i polmoni e soffocava il fiato. Finì presto, nonostante anche là dentro ci sforzassimo di salire in alto, di respirare, nel vano tentativo di salvarci. Lì non è terminata solo la mia vita, che in realtà non era ancora iniziata; in quel campo, in quegli anni, in quel modo sono morte milioni di persone come me. Maschi, femmine, grandi, bambini, poveri, ricchi. Tutti diversi ma tutti uguali, forse uguali persino ai nostri aguzzini e ai nostri carnefici. Che, tuttavia, avevano fatto di tutto, ma proprio di tutto, per degradare la loro umanità in nome di quella favola antica e nuova che racconta lo scontro tra nemici, tra superiori e inferiori, tra vincitori e perdenti, tra uomini e no.

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Qasim

La Storia: L’immigrazione in Italia è un fenomeno che ha raggiunto delle dimensioni molto significative verso gli anni ’70. Le popolazioni straniere che emigrano in Italia comunemente vengono da Paesi dove ci sono guerre e persecuzioni religiose, povertà e miseria, dove la vita è molto più difficile rispetto a quella in Europa. Le persone giungono nei Paesi europei spesso accompagnate dai propri cari compiendo un cosiddetto ‘’viaggio della speranza’’ e rischiando tutto, con la consapevolezza che potrebbero anche non farcela, per cercare di dare a se stessi e ai loro figli una vita dignitosa. Vengono da realtà molto dure dove è difficile solo provare ad immaginare di avere un futuro. Coloro che riescono a superare il lungo e duro viaggio arrivando qui si distribuiscono per l’Italia: la maggior parte degli immigrati si trasferisce nel nord mentre il resto si divide tra centro, sud e le isole. Gli stranieri che fuggono da realtà di guerra si chiamano profughi. Negli ultimi anni il numero di profughi è aumentato e continua ad aumentare, così come il numero inverosimile di morti che provoca il mar Mediterraneo. Da Ginevra l’Agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione ricorda la triste contabilità: dall’inizio dell’anno 2018 al 27 giugno scorso, almeno 972 uomini, donne e bambini hanno perso la vita mentre tentavano di raggiungere l’Europa via mare. Di questi 653 sono deceduti sulla rotta del Mediterraneo centrale tra l’Africa del nord e l’Italia. Tra i morti di un naufragio avvenuto a fine giugno 2018 a largo della Libia ci sono anche tre bambini: avevano meno di un anno e mezzo, indossavano tute di colore rosso. Due erano marocchini, uno egiziano. La guardia costiera libica è riuscita a salvare 16 migranti, ma altri cento sono dati per dispersi. I tre corpi dei bambini sono stati riportati a riva, ma secondo i testimoni ve ne erano anche altri sull’imbarcazione. La tragedia è avvenuta di notte a circa sei-sette miglia al largo di Tripoli. Il barcone ospitava circa 120 persone e ha cominciato a cedere a causa di crepe alla prua dovute alla poca manutenzione e alla vecchiaia del mezzo. I migranti si sono ammassati a poppa dove però il motore ha preso fuoco causando il disastro. I barconi preposti a tale scopo sono, in effetti, sempre stracolmi ed è questa una delle principali cause di tutti quei naufragi che vedono come palcoscenico il Mediterraneo.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Qasim, tre anni, scappato dal suo Paese, il Marocco, insieme ai suoi genitori per arrivare in Italia e trovare stabilità e una nuova patria. Il piccolo si è imbarcato a Tripoli insieme alla sua famiglia, di origine marocchina, e a altre 120 persone che, come lui, hanno sfidato il mare nella speranza di un futuro migliore. Prima di salire a bordo della barca la madre del piccolo lo ha vestito di rosso in modo tale da renderlo ben visibile in mezzo alle onde in caso di naufragio. A causa del forte vento e del mare in tempesta il barcone, però, ha iniziato ad imbarcare acqua costringendo i migranti a spostarsi verso la poppa dove però è scoppiato un incendio. Tutto ciò ha causato il naufragio. Qasim, abbracciato stretto a sua mamma, finisce in acqua insieme agli altri. È qui che, a causa della confusione, perde i genitori tra le onde e si ritrova da solo, in mezzo al mare. Il piccolo non sa nuotare e nonostante il vestito rosso che indossa non viene salvato da nessuno dei profughi. Trascinati dalle onde, Qasim e a altri due bambini vengono ritrovati sulla costa libica.

Mi chiamo Qasim ed ero un bambino. Avevo tre anni e venivo dal Marocco, un Paese dove non c’è la guerra ma c’è la miseria. E i miei genitori volevano garantirmi un futuro migliore altrove, forse in quell’Europa vicina ma lontana, forse oltre l’oceano che bagna le nostre coste a ovest. Nessuno lo può sapere perché quel futuro io non lo ho avuto. Io, clandestino in potenza, criminale solo perché qualcuno aveva preteso una vita nuova per me, non ho fatto in tempo a rendermi conto dell’illusione. Forse, è stato meglio così. Dicono che mi abbia ucciso il mare, ma – sapete? – io non lo credo. Io credo che, almeno in parte, sia stato ucciso dagli uomini: sia da quelli che speculano sulle nostre disgrazie e la nostre speranze costringendoci a pagare cifre spropositate per salire su barconi vecchi appena galleggianti; sia da quelli che decidono di chiudere i porti e di respingerci perché non abbiamo diritti, perché siamo una minaccia che attenta alla loro identità chiusa; sia da coloro che, più subdoli, parlano la lingua dell’odio ed emettono sentenze scritte seduti al computer delle loro case seminando diffidenza, cinismo, risentimento, paura. Una paura che si amplifica cozzando contro i muri di gomma dell’indifferenza di chi, pur non avendo paura, contro la paura non si schiera. Ma perché, mi domando, l’uomo deve avere paura di un altro uomo? E’ vero, siamo diversi, proveniamo da luoghi differenti, parliamo tante lingue, pensiamo addirittura secondo codici e valori che non coincidono; ma questo non comporta che siamo nemici. Quella del nemico – vago, sfuggente, indistinto e perciò difficilmente individuabile – è un’invenzione di chi sulla paura e il terrore costruisce consenso e, così, si accaparra potere. Voi che avete vissuto sulla vostra pelle gli effetti della miseria dovuta alla crisi, voi che ancora soffrite per un lavoro che non c’è o un regalo che non potrete fare a vostro figlio; voi italiani, e francesi, e tedeschi, voi tutti dell’Europa cercate di riflettere bene prima di giudicare o individuare capri espiatori. Proprio la capacità di ragionare in autonomia vi ha reso grandi e liberi: non rinunciate a questo privilegio poiché l’alternativa non è migliore. Prendete me, ad esempio, me e quegli altri due bimbi vestiti di rosso che, come me, sono stati raccolti esanimi sulle spiagge di Libia: di noi hanno detto, avete detto persino che potevamo essere bambolotti, che quella era una falsa messa in scena orchestrata dalle ONG di Soros (ma chi è questo signore? Io non l’ho mai conosciuto); le nostre immagini invece di suscitare pietà o indignazione sono diventate oggetto di battute perfide e irriverenti che si sono moltiplicate grazie a internet e alle reti sociali. Questo vuol dire ragionare? Questo vuol dire essere uomini? Ma proprio voi – voi che siete il risultato di mescolanze di popoli, di incontri e di scontri, di invasioni e di conversioni – voi avete rivendicato la pratica della critica, del dubbio, della necessità di vagliare le fonti prima di aderire a un’opinione, a un’idea. Perché volete dimenticarvelo? Perché volete tornare a dimenticarvelo dopo che già in passato quest’oblìo ha determinato la morte di milioni di innocenti? Perché volete di nuovo imbarbarirvi? Ve lo devo rammentare io, un bambino a cui è stata negata anche la possibilità di usarla l’intelligenza adulta? I miei genitori volevano che andassi a scuola in Occidente, ma forse anche loro erano vittime di informazioni false e bugiarde. Già, la mia famiglia. Ricordo ancora il tempo precedente alla fine, ma vorrei tanto poterli rivivere davvero, quei momenti, toccare ancora una volta la pelle di mia madre, sorridere agli occhi grandi di mio padre. Rammento, invece, le ultime parole sussurrate al mio orecchio: “rilassati piccolo, andrà tutto bene, e quando ti sveglierai saremo nel nostro posto felice”. Poi più niente. Mi sono risvegliato solo, avevo le ossa infreddolite, i capelli fradici e tutto era blu intorno a me. Io ho sempre amato il blu, ma quella volta mi incuteva terrore, anche perché la gente gridava, annaspava, cadeva. Dov’è il mio posto felice, mi sono chiesto; ma la risposta è stato un tuffo nel nulla, tra i corpi delle persone che si dimenavano nell’acqua e poi si perdevano giù in basso, nell’immenso blu che prende il color delle tenebre. Ho sempre sentito dire che il mare fosse l’inferno, ma io nel mare ho trovato finalmente pace. Quel mare, il Mediterraneo, è diventato l’abbraccio di una donna, il seno accogliente di una madre. Una donna e una madre che il più delle volte ce la fa ad usare il grembo come passaggio per nuovi approdi, mentre altre la potenza e l’energia scaturite dall’odio degli uomini sollevano onde altissime, troppo alte per i bambini vestiti di rosso.

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Saamiya

La Storia: Il 1991 è l’anno dello scoppio della guerra civile in Somalia, che dopo la caduta del dittatore Siad Barre, il quale aveva accentuato l’identità etnica e la divisione tra i vari clan al fine di imporre un governo autoritario, vede contrapposti i vari clan dei signori della guerra e anche il governo centrale in una specie di feroce anarchia. Mogadiscio diviene terreno di battaglia tra i due principali contendenti, Ali Mahdi ed il generale Aidid. I signori della guerra finanziano le proprie milizie attraverso i saccheggi, i rapimenti, il mercato nero, il traffico illegale di armi e droga. Il funzionamento di questa economia, che naviga nella deregolamentazione del mercato globale, può essere sostenuto solo con l’uso della violenza ed una logica di guerra: il conflitto non è più così il mezzo ma il fine. A Mogadiscio la situazione è drammatica: vi sono uomini armati a bordo di furgoni che sparano a chiunque, bombe che esplodono in mezzo ai mercati e granate che cadono sui tetti delle scuole. La spiaggia è il luogo più pericoloso, dove le milizie dei signori della guerra si affrontano. Tra queste forze armate vi sono anche gli Al-Shabaab, un gruppo di fondamentalisti islamici. Mano a mano che questi rafforzano il proprio potere, gli uomini non possono più portare i calzoni e i capelli corti e le donne i veli colorati della tradizione somala, imponendo loro il Burka. Non si può più andare al cinema, in biblioteca, fare musica e tanto meno quello che a Saamiya Yusuf Omar, protagonista della nostra storia, piace fare di più, ovvero correre. Il nuovo stadio della città è invaso dai militari e la ragazza è costretta ad allenarsi in quello più vecchio. Con il 2008 la situazione si complica ancora di più. La Somalia è sempre più violenta e gli Al- Shabaab sono sempre più integralisti. Saamiya così, per continuare ad inseguire la propria passione, è costretta ad andarsene.

Il contesto: Questa e la storia vera di Saamiya Yusuf Omar. Saamiya nasce nel 1991 in una famiglia povera di Mogadiscio. Vive in piccola casa, composta di sole 2 stanze, insieme alle sue tre sorelle, i suoi due fratelli, suo padre e sua madre. Vicino alla loro casa abita Alì, considerato da Saamiya come un fratello. I loro padri sono grandi amici anche se dovrebbero odiarsi, visto che appartengono a due clan diversi. Saamiya, fin da bambina, mostra un grande talento per la corsa e decide di diventare la ragazza più veloce di Mogadiscio. Ad allenarla c’è Alì, che impara per lei a leggere e scrivere per apprendere le tecniche dai libri di atletica. Corre di notte, quando nessuno la vede, nel vecchio stadio Cons di Mogadiscio con una maglietta che è più grande li lei e le scarpe da ginnastica dismesse da almeno tre fratelli. La corsa la libera dalla preoccupazione che la guerra diffonde in questo periodo. Suo padre le ha insegnato il coraggio di lottare per raggiungere la sua passione dicendole: “Non dire mai di avere paura, altrimenti le cose di cui hai paura diventano forti e vincono loro”. Dopo aver vinto alcune gare locali di corsa, le viene proposto di correre per il suo paese dal Comitato olimpico della Somalia. Partecipa così alle Olimpiadi di Pechino del 2008 arrivando ultima e dicendo ai giornalisti che la intervistano che alle Olimpiadi successive di Londa del 2012 sarebbe arrivata prima. La situazione però in Somalia peggiora, suo padre muore e sua sorella parte per l’Europa. Saamiya diventa un’eroina per donne somale, conquistandosi così l’odio di Al-Shabaab, gruppo nel quale, nel frattempo, è entrato anche Alì, forse addirittura coinvolto nella morte di suo padre. Decide allora di abbandonare anche lei il Paese. Teresa Krug, giornalista di Al-Jazeera, la aiuta a sbrigare le questioni burocratiche per trasferirsi in Etiopia ma purtroppo non può rimanerci a causa della mancanza di documenti. Decide allora di intraprendere il “viaggio” per giungere in Europa attraversando il Sudan, la Libia e il Mediterraneo, per una durata totale di cinque mesi, durante i quali è costretta a vivere in condizioni disumane e a subire maltrattamenti. Giunta a Tripoli, si imbarca a bordo di un vecchio peschereccio. Purtroppo non ce la fa a raggiungere l’Italia e muore annegata nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere le navi italiane.

Mi chiamo Saamiya ed ero una ragazza. Oggi, 2 aprile 2012, sono molto felice. Da oggi sono davvero libera, potrò correre, potrò vivere. Finalmente potrò realizzare il mio sogno più grande, quello che ho fin da bambina, quello per cui ho sempre combattuto. Non era facile correre in Somalia, non mi era concesso. Io però non ne volevo sentire parlare: nessuno poteva impedirmi di fare quello che mi piaceva di più. Come diceva mio padre, sono sempre stata un maschiaccio, una guerriera ed io paura non ne ho mai avuta. Eppure, non correvo per me o per diventare importante, ma per tutte le donne somale, per rivendicare un riscatto, per pretendere più giustizia; e questo volevo farlo proprio in Somalia. Ora però sono qui, su questo peschereccio, e sto aspettando di arrivare in Italia. Vi chiederete come mai una guerriera come me abbia deciso di abbandonare il proprio paese, abbia rinunciato così alla propria battaglia. Non lo so bene nemmeno io. Di certo so che non smetterò di combattere, che anche in Europa correrò per le donne somale, per liberarle da costrizioni, barriere, condizionamenti. Sono su questa barca, in mezzo a più di 300 persone, e il tempo sembra essersi fermato. È da più di cinque mesi che sono in viaggio. Sono partita da Addis Abeba, in Etiopia. Il tragitto per arrivare a Tripoli è stato lungo e doloroso. Non potevo portare con me un bagaglio ingombrante, solo un piccolo sacchetto dove ho messo le cose più importanti, pochi vestiti, la foto di Mo Farah, il mio idolo più grande, e la fascia bianca che mio padre mi aveva regalato quando avevo 10 anni e che è tutto quello che mi resta di lui. Ho attraversato l’Etiopia, il Sudan, la Libia, il deserto del Sahara e ora sto attraversando il Mediterraneo. Sono stata favorita dalla sorte, ma molte delle ragazze che erano con me non lo sono state altrettanto. Le più fortunate ora non ci sono più. Altre invece sono state imprigionate, divenendo contro la loro volontà schiave sessuali. Non c’è giorno che non pianga e che non pensi alle violenze che ho visto in questi mesi, alle prigioni, alla perfidia dei trafficanti di uomini, al modo in cui sfruttavano donne e bambini, alle grida di chi non ce l’ha fatta. E non passa ora che non mi senta in colpa per essere arrivata fino a qui, mentre loro hanno dovuto soccombere. Ormai da qualche giorno sono su questo vecchio peschereccio. Ancora non riesco a credere che finalmente sarò libera, libera di vivere. Non sono sola: con me ci sono circa 300 persone, che hanno la mia stessa voglia di lottare, la mia stessa voglia di correre. Siamo uno accanto all’altro. Lo spazio è poco. Qualcuno urla e si lamenta, altri invece hanno smesso di farlo. Sta scendendo la notte. L’Italia ormai è vicina, ma non si vede. Non si vede niente. Si vede solo la schiuma bianca delle onde che si infrange sullo scafo del natante. La barca si ferma. Il peschereccio è vecchio: siamo in molti e il motore non ce la fa. Il tempo sembra essersi fermato. L’imbarcazione ha ormai perso la rotta e segue la corrente. Fa freddo. Il mare è profondo e buio ed ho paura, anche se una guerriera non dovrebbe ammetterlo. Sembra che orami la speranza sia un lusso che non possiamo più permetterci; ma ecco una luce in lontananza che sembra avvicinarsi. Si ferma anche quella: è la guardia costiera italiana. No, non si avvicina e la paura si trasforma in disperazione nella consapevolezza che tutto il viaggio sia stato vano, che ci riportino indietro, che la guerra che abbiamo combattuto sia stata inutile. Io però ho sempre voluto vincere! La nave sembra così vicina e la distanza che mi separa dalla metà così breve…basterebbe soltanto fare lo scatto finale per arrivare al traguardo, ma non so nuotare. Io il mare l’ho sempre visto solo da lontano: a Mogadiscio non ci potevo andare, era pericoloso. Ferma, però, non ci sono mai stata e la voglia di vincere è tanta. Ho deciso: mi butto…ecco, ormai ci sono… la meta è vicinissima, il traguardo agognato, il nastro d’arrivo che cede, la gente intorno che esulta, mio padre sugli spalti con la bandiera e il sorriso più grande che ci sia… ma la coppa pesa, pesa troppo, le gambe cedono, il corpo sprofonda, il sudore è salato e sa di alghe… mi manca il respiro per urlare al mondo la rivelazione dell’incubo al posto del sogno…no, non si vince sempre! E mi lascio avvolgere dal lugubre abbraccio del mare che mi avvinghia nei suoi flutti e mi trascina nelle profondità del nulla che non ha fine.

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Sarah

La Storia: Allo scoppio della seconda guerra mondiale Łόdz era considerata la seconda città più popolata della Polonia. Un terzo dei suoi abitanti erano ebrei. La zona più povera della città, Bałuty, era stata scelta dai tedeschi come luogo più adatto per la creazione del ghetto ebraico di Łόdz, dove nel Maggio 1940 furono rinchiusi tutti gli ebrei della città. Le condizioni di vita nel ghetto era durissime. Per assicurarsi che non fosse possibile nessun contatto tra la popolazione ebrea e quella polacca i tedeschi adibirono al servizio di ronda attorno al ghetto due speciali unità di polizia. Ogni ebreo trovato all’esterno del ghetto poteva, per legge, essere ucciso a vista. Il 10 maggio 1940 vennero emanati ulteriori ordini tesi ad interrompere ogni forma di commercio tra ebrei e non-ebrei con severissime pene in caso di trasgressione. Negli altri ghetti in Polonia un’economia sotterranea basata sul contrabbando di alimenti e merci ebbe modo di fiorire rendendo meno duro l’isolamento del ghetto con il mondo esterno; a Łódź, a causa dei severi controlli, questo fu virtualmente impossibile e gli ebrei dovettero far fede per la loro sussistenza esclusivamente sulle autorità tedesche, dalle quali dipendevano per cibo, medicine e per tutti i rifornimenti essenziali. Per inasprire ulteriormente la situazione l’unica moneta legale del ghetto era uno speciale “buono”, che non aveva, quindi, corso legale nel resto della città. Trovandosi in condizioni disperate, gli ebrei affamati cambiarono i loro ultimi valori con questo “buono”, velocizzando così il processo di spoliazione totale dei loro beni. Le malattie erano un altro grave problema con il quale gli abitanti del ghetto dovettero quotidianamente confrontarsi. I rifornimenti di medicinali erano ampiamente insufficienti ed il ghetto decisamente sovrappopolato. L’intera popolazione era racchiusa in una superficie di appena 4 chilometri quadrati di cui solo 2,4 di abitazioni. Inoltre le scorte di combustibile per riscaldamento erano minime e gli abitanti si videro costretti a bruciare di tutto per sopravvivere ai freddi inverni polacchi. Le statistiche ufficiali compilate dallo Judenrat sono impressionanti, mostrano che oltre 45.000 ebrei morirono di stenti nel ghetto (per fame, freddo, malattie, maltrattamenti ed esecuzioni sommarie): 8.475 nel 1940, 11.456 nel 1941, 18.046 nel 1942, 4.573 nel 1943, e 2.778 nel 1944. Ad essi si aggiungono 719 rom e 136 bambini polacchi, che perirono nei campi annessi al ghetto ebraico. Il ghetto di Łόdz fu tra i primi ad essere creato per controllare la popolazione ebraica, e fu l’ultimo ad essere liquidato perché lo sfruttamento del lavoro degli ebrei produsse enormi profitti per il Reich e per gli industriali tedeschi. Nel dicembre 1941 a Chełmno entrò in funzione il primo campo di sterminio per l’esecuzione della soluzione finale. Nella seconda fase, che iniziò il 1 settembre 1942, per primi vennero prelevati i pazienti degli ospedali; successivamente si verificò la cosiddetta “grande retata” (4-13 settembre 1942) ,in tedesco “Sperre”: in questa operazione i tedeschi passarono di casa in casa prelevando tutti gli anziani, i malati e i bambini sotto i dieci anni in modo da eliminare dal Litzmannstadt Ghetto i più deboli ed inabili al lavoro. La retata durò nove terribili giorni. Agli ebrei del ghetto fu ordinato di lasciare nelle mani dei tedeschi tutti i bambini piccoli: il loro tesoro. Fu ordinato agli abitanti del ghetto di rimanere a casa ed aspettare l’arrivo della polizia con l’elenco di coloro che bisognava consegnare. Il destino finale del ghetto di Łódź venne discusso dai più alti gradi della gerarchia nazista fin dal 1943, e sfociò nel 1944 in un’aperta controversia che oppose Heinrich Himmler, comandante delle SS, al Ministro dell’economia bellica, Albert Speer. L’intenzione di Himmler era di liquidare il ghetto trasferendo i lavoratori ancora abili nei campi di lavoro dell’area di Lublino mentre Speer propendeva invece per il mantenimento del ghetto come fonte di produzione a basso costo, utile in un frangente che vedeva la Germania in difficoltà su tutti i fronti di guerra. Nel maggio 1944, quando la vicinanza delle armate sovietiche faceva sperare in una rapida liberazione, Himmler dette l’ordine di procedere alla liquidazione totale della popolazione rimasta: tra il 23 giugno ed il 14 luglio 1944, 7.196 ebrei vennero deportati e uccisi nel campo di sterminio di Chełmno.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Sarah, una tra le moltissime vittime della “grande retata” del settembre 1942. I genitori erano ricchi banchieri e abitavano nel centro di Łódź insieme ai nonni paterni. Erano amici intimi di Chaim Mordechai Rumkowski, presidente dello Judenrat della città, e proprio per questo speravano di godere di privilegi. Sarah fino all’inizio della guerra, in effetti, aveva condotto una vita spensierata a stretto contatto con i cuginetti, con i quali passava interi pomeriggi a giocare con la tipica trottola di Chanukkah. Con la passione per la corsa e con ancora tutta la vita davanti, era all’oscuro di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.

Mi chiamo Sarah e ero una bambina. Ero nata in una bella città polacca, Łódź, che, tuttavia, appena cominciò la guerra entrò a far parte del Reich. Non mi sentivo tedesca e sentivo che i tedeschi non mi consideravano una di loro. Mio padre, che ascoltava la radio e continuò a farlo anche di nascosto dopo l’annessione, era molto preoccupato sulla nostra sorte: diceva che agli ebrei sarebbe stato tolto qualcosa. Ma io non credevo che dopo la casa, gli agi e la dignità, mi avrebbero tolto persino la famiglia e la vita. La mia era una famiglia ricca e vivevo in un appartamento della via Piotrkowska arredato con mobili antichi e dipinti di valore. Avevo giocattoli di ogni genere, anche se io prediligevo le piccole trottole – dreidel le chiamavamo – con le quattro facce decorate dalle lettere ebraiche Nun, Gimel, He e Shin. Ci giocavo da sola o in compagnia dei miei cugini Maurice e David, che spesso mi venivano a trovare e che addirittura, a guerra iniziata, si trasferirono da me. La guerra, in effetti, cambiò tutto, sconvolse la mia ordinaria vita di bambina amata e viziata: nessuno a parte altri ebrei veniva più a trovarci; non potevo più uscire per correre, né potevo frequentare la scuola; mio padre non lavorava più e la nonna aveva persino smesso di suonare il piano. Papà diceva che eravamo fortunati, proprio perché lui era amico intimo di Chaim Mordechai Rumkowski, presidente dello Judenrat di Łódź. Mi diceva che grazie a lui avevamo ancora la casa e non ci avevano trasferiti nel Governatorato Generale come la maggior parte della nostra gente. Poi, però, la casa la dovemmo abbandonare per trasferirci in una stanza – una sola stanza! – umida e ammuffita del ghetto, nelle vicinanze del quartiere di Baluty. Per quanto ancora piccola, capii che gli ebrei fin dall’arrivo dei tedeschi avevano dovuto rinunciare ai loro beni e indossare quell’orrendo marchio giallo sugli abiti perché considerati indegni. Fu così che divenni adulta da un giorno all’altro, mentre avrei tanto voluto rimanere bambina, correre libera, giocare, studiare. Le condizioni di vita nel ghetto erano disumane: per assicurarsi che non fosse possibile nessun contatto tra la popolazione ebrea e quella polacca i tedeschi adibirono al servizio di ronda attorno al ghetto due speciali unità di polizia. Ogni ebreo trovato all’esterno del ghetto poteva, per legge, essere ucciso a vista. Il 10 maggio 1940 vennero emanati ulteriori ordini tesi ad interrompere ogni forma di commercio tra ebrei e non-ebrei con severissime pene in caso di trasgressione. Avevo paura, avevo fame; temevo di dover perdere anche quel poco che mi restava: la mia famiglia, le trottole di Chanukkah, un cappottino rosso logoro che tuttavia ancora mi riscaldava. Poi arrivò il settembre del ’42 e neanche Rumkowski poté fare nulla per salvarmi. Anzi, fu proprio lui a tenere un discorso ufficiale che rappresentò una sorta di condanna a morte per noi bambini, per i vecchi e tutti coloro che non potevano servire il Reich. Nel mio stato di adesso, non più limitata da un corpo o da un’età, posso anche ricordarlo con esattezza, quell’orribile discorso: “Un atroce colpo si è abbattuto sul ghetto. Ci viene chiesto di consegnare quello che di più prezioso possediamo – gli anziani ed i bambini. Sono stato giudicato indegno di avere un figlio mio e per questo ho dedicato i migliori anni della mia vita ai bambini. Ho vissuto e respirato con i bambini e mai avrei immaginato che sarei stato obbligato a compiere questo sacrificio portandoli all’altare con le mie stesse mani. Nella mia vecchiaia, stendo le mie mani ed imploro: Fratelli e sorelle! Passatemeli! Padri e madri! Datemi i vostri figli!”. Così parlò Rumkowski. Ci spinsero in un vagone, puntandoci il fucile contro come se fossimo delle bestie; persi di vista i nonni, persi di vista Maurice e David. In quel vagone, troppo piccolo per contenere tutti quanti, non respiravo. Mi mancava l’aria e sentivo la paura che si impossessava lentamente del mio minuscolo corpo infreddolito. Scendemmo alla stazione di Koło e finalmente ritrovai i nonni e i cuginetti. Da lì ci rinchiusero nella sinagoga, ma dopo qualche ora ci trasferirono in un vecchio mulino lontano da occhi indiscreti. La mattina successiva ci portarono in un castello e per un attimo ripresi a sperare: nel cortile ci informarono che avremmo fatto un bagno e che i nostri abiti sarebbero stati disinfestati prima di ripartire alla volta dei campi di lavoro. Dopo aver ricevuto sapone e asciugamani fummo condotti nel sotterraneo del castello per poi risalire, lungo una rampa, fino al vano di carico di uno strano autocarro. Ma dove si trovano i bagni in questo luogo? pensai. Poi salii, come me tanti altri; poi colsi lo sguardo muto dei nonni e vidi piangere Maurice e David; poi chiusero e misero in moto; poi le urla e l’angoscia; poi il terrore della fine; poi la stanchezza, il sonno, la notte.

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Chun

La Storia: Nel 1962 l’incremento delle nascite preoccupò il governo cinese, che decise di intraprendere una politica di pianificazione familiare nelle aree urbane più densamente popolate (nel 1979 la Cina accoglieva circa un quarto della popolazione mondiale, con a disposizione solo il 7% della superficie coltivabile; i due terzi dei cinesi avevano meno di trent’anni ed i molti nati negli anni ’50 e ’60 entravano nell’età riproduttiva). Il governo di Deng Xiao Ping varò, così, una politica organica di controllo della natalità, da attuare su tutto il territorio nazionale. In particolare, fu promulgata una legge che vietava alle donne di avere più di un figlio. Con alcune eccezioni: le coppie contadine, se avevano avuto un primo figlio femmina, potevano decidere di avere un secondo figlio maschio; i ricchi ed i burocrati del partito potevano permettersi, dietro pagamento di multe salatissime, di avere più di un figlio. Furono stabiliti anche i livelli di crescita nazionale, che prevedevano una popolazione di 1,27 miliardi nel 2000 e il raggiungimento della crescita zero per lo stesso anno. Nel 1981 fu creata la “Commissione di Stato per la Pianificazione Familiare”, equivalente di un ministero per coordinare le varie attività. Migliaia di donne cinesi decisero di andare a partorire negli USA, mentre chi si batteva per i diritti delle donne e dei bambini veniva perseguitato. A partire dagli anni Ottanta il controllo statale delle nascite fu in parte ridotto e nel 1984 fu concessa maggiore flessibilità, a livello regionale, per poter avere due figli. Negli anni Novanta furono incentivati i metodi contraccettivi, per frenare il ricorso all’aborto indotto, però cominciò a porsi l’opposto problema dell’invecchiamento della popolazione. La legge sulla limitazione delle nascite verrà abolita nel 2013. La più drammatica conseguenza della politica del “figlio unico” sono stati i milioni di aborti selettivi e di infanticidi. Inoltre, nel corso degli anni Ottanta le coppie uccidevano le neonate figlie femmine o abortivano i feti femminili per poter allevare un unico figlio maschio, tradizionalmente preferito. Il risultato è stato terribile: 62 milioni di “donne mancanti”. In Cina ci sono meno madri ed in conseguenza ci saranno meno bambini; si stima che nel 2050 il 10% degli uomini in età da marito non troverà una donna con sui sposarsi. Perciò anche dopo la fine della politica del figlio unico, gli effetti negativi di questa scelta eugenetica continueranno a farsi sentire per molto tempo. Una politica eugenetica che è ricaduta non su una “razza”, ma su un genere – quello femminile – e che, tuttavia, nelle sue conseguenze può essere annoverata tra gli orrori dell’umanità.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile della neonata Chun, una bambina cinese vittima della legge del primo figlio. Chun non poteva che essere un personaggio inventato, perché ovviamente non disponiamo di nessuna testimonianza diretta da parte delle vittime, mentre le voci degli adulti hanno taciuto per timore di incorrere nelle pene previste per questo reato. Di fatto, però, i primogeniti sopravvivevano solamente se maschi, mentre le primogenite femmine venivano spesso uccise subito dopo la nascita o le madri erano costrette ad abortire il prima possibile se si trattava del secondo figlio (indipendentemente dal sesso). Chun è la figlia mai cresciuta di due contadini poveri che, bisognosi di un aiuto per i lavori nella campagna, non trovano altra strada se non quella di dare la morte alla loro primogenita. Chun, insomma, è solo una delle tante bambine alle quali la vita è stata strappata, subito dopo averla ricevuta.

Mi chiamo Chun ed ero una bambina. In realtà, questo nome – Chun – me lo sono data io, perché nessuno mi ha mai chiamata. Oggi, 14 marzo 1984, sono nata. Per prima cosa piango, ma sono solo lacrime di spavento per la novità immensa che è la vita; la fatica di respirare da sola, di cavarmela da sola prima che qualcuno mi stringa a sé: quella mamma che mi ha generata e che adesso mi attaccherà al suo seno e mi nutrirà col suo latte. Ma dov’è, dov’è la mamma? Qualcuno mi tiene in braccio, ma non riconosco la familiarità della voce. Sento altre mani che mi afferrano, sono grandi e fredde: no, non possono essere quelle di mia madre. Non mi coccolano, non mi cullano, ma si limitano a tenermi in braccio, avvolta solo da una coperta. Piango più forte stavolta, voglio andare dalla mamma, sentire il suo calore, la sua voce. Le fredde mani mi strattonano, nel vano tentativo di farmi smettere. Perché non mi portano dalla mamma? Con uno scatto improvviso, l’uomo dalle mani grandi inizia a camminare velocemente. Non si è accorto che la coperta sta cadendo, lasciandomi scoperte le gambe; non se ne cura. Sento il vento sui miei piccoli piedi scoperti, percepisco vagamente tutto un mondo intorno a me, un mondo che potrei abitare, che potrei scoprire, che potrei far mio. Vorrei tanto poter reagire, rivendicare questo diritto al futuro poiché ho un presente, perché io sono nata, io esisto! E esisto come bambina! All’improvviso l’uomo si ferma. Inizia a parlare con qualcuno, non so chi sia, non capisco cosa dica. L’uomo mi appoggia per terra e mi avvolge con la coperta, dalla testa ai piedi. Tutto adesso è nero. Sento il peso leggero del mio corpo appoggiato sui sassi della strada; sento dell’acqua che scorre vicina. Rimango lì immobile per qualche istante e aspetto. Non c’è nessuno: né la mamma, né l’uomo dalle mani grandi. Sento dei passi, una persona si sta avvicinando, inizio a piangere per farmi sentire. Finalmente qualcuno si accorgerà di me, mi solleverà, mi porterà con sé, mi vorrà veder crescere, diventare una ragazza, poi una donna. I passi rallentano quando mi sono vicini, ma non si fermano, anzi riprendono più velocemente. Sento altri passi, torno a sperare, a sognare la vita, ma nessuno si ferma. Continuo a piangere, ho fame. Non capisco che cosa ho che non va, perché nessuno si prende cura di me, perché nessuno mi vuole. Ma soprattutto perché lei, la mia mamma, non è qui. Le urla adesso si fanno più fioche: sono stanca, ho fame, ho freddo, le forze mancano. Tutto è buio come prima di uscire a respirare, ma non c’è più il caldo tepore del liquido che mi cullava, né il cordone che mi nutriva. Non sento più la voce della mamma che mi aveva dentro. Cosa diceva quella voce? Era felice del mio arrivo, mi cuciva le scarpette, preparava il lettino e mi aveva dato un bel nome da maschietto. Le forze mancano, inizio ad essere davvero tanto stanca. Un nome da maschietto che non era il mio, perché io non sono un maschietto. Vorrei riposarmi, ma soprattutto vorrei vedere la mia mamma. Quando verrà a prendermi? Verrà a prendermi? Sento altri passi, ma neanche questi si fermano. Inizio a respirare piano, male, come se la coperta che ho sul volto mi stesse soffocando. Provo a toglierla, ma non ce la faccio, mi mancano le forze. Ho il respiro affannato, chiudo gli occhi, mi addormento e aspetto che la mamma mi raggiunga nel paradiso delle femmine, che qui sulla terra per noi c’è solo l’inferno.

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Sergio

La Storia: Fino al 1938 gli ebrei italiani erano cittadini come tutti gli altri, erano presenti in tutti gli strati sociali e partecipavano alla vita della nazione, per quanto l’ideologia fascista avesse già mostrato tendenze antisemite. Dal 1936 iniziò in Italia una martellante campagna di stampa contro gli ebrei da parte di due giornali: il quotidiano “Il Tevere” e il periodico “La difesa della razza”. Nel luglio del 1938 compariva il primo atto ufficiale antiebraico, sia pure solo teorico. Era “Il manifesto degli scienziati fascisti” detto anche “manifesto della razza” che fu sottoscritto da 180 pseudo-scienziati fedeli al regime. Il documento, articolato in 10 punti, affermava sostanzialmente che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Il 5 settembre 1938 veniva emanata la prima legge razziale, poi quasi quotidianamente nuove leggi, disposizioni, circolari amministrative imporranno crescenti divieti: i bambini e gli adolescenti non avevano la possibilità di frequentare la scuola pubblica; i capofamiglia di prestare la loro opera negli uffici della pubblica amministrazione, nella scuola e nelle università; gli ebrei non potevano più esercitare la propria attività, che fossero imprenditori o venditori ambulanti. Vennero radiati dall‟esercito, dagli albi professionali, dalle banche, dalle imprese di interesse pubblico. I matrimoni con cattolici erano proibiti. La vita quotidiana venne resa ulteriormente difficile e umiliante con la proibizione di pubblicare gli annunci funebri sui giornali, conservare il proprio nome nell’elenco telefonico, frequentare luoghi di villeggiatura, lavorare nel mondo dello spettacolo, operare in qualità di ostetrica o infermiera. E, ancora, via dai libri scolastici testi scritti da ebrei, via dalle strade nomi di ebrei illustri, via dalle lapidi di ospedali o asili i nomi di benefattori ebrei. La situazione andò sempre peggiorando con l’avvicinarsi dell’entrata in guerra dell’Italia. Nel settembre del 1943 gli ebrei nell’Italia centro-settentrionale erano circa 33.000 tra cittadini italiani e profughi stranieri. Con l’8 settembre del 1943, l’occupazione tedesca e la creazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), la persecuzione antiebraica subì una decisa svolta verso l‟eliminazione. Le prime violenze antiebraiche furono messe in atto sul Lago Maggiore e a Merano a metà settembre, ma l’inizio della „soluzione finale‟ in Italia convenzionalmente si situa il 16 ottobre a Roma con la razzia al Ghetto. Nel mese di novembre le maggiori città del Nord subirono una “judenaktion” con due trasporti destinazione Auschwitz: uno partito il 9 novembre da Firenze con ebrei rastrellati nelle carceri di Firenze e Bologna, l‟altro partito il 6 dicembre il cui carico avvenne a Milano, Verona e Trieste. Il 14 novembre del 1943 i delegati della Rsi approvarono la Carta di Verona che al punto 7 recitava “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Il grande e definitivo campo di concentramento fu istituito a Fossoli, a 5 km da Carpi e la sua direzione venne presa dai tedeschi. Anche l’Italia si uniformava appieno alla procedura messa in atto negli altri Paesi europei allineati al Reich: arresto, concentramento in apposito campo, organizzazione di una partenza verso Auschwitz una volta raggiunto un numero sufficiente di prigionieri da spedire. Da Fossoli furono 5 le partenze per Auschwitz-Birkenau, due per Bergen Belsen. Il bilancio finale delle deportazioni italiane fu di 6.806 ebrei arrestati e deportati (di cui 5.969 deceduti) e di 322 morti in patria per eccidi, maltrattamenti o suicidi.

Il contesto: Questa è la storia vera di Sergio De Simone. Nacque a Napoli il 29 novembre 1937, figlio del cattolico Eduardo De Simone e dell‟ebrea Gisella Perlow. Nell‟agosto del 1943 quel che rimaneva della famiglia De Simone, dopo la partenza del padre, vale a dire Gisella e Sergio, decise di tornare dalla famiglia della madre a Fiume. Per un triste gioco del destino però lo stesso anno la zona di Fiume cadde direttamente sotto la sovranità del Reich. Il 21 marzo 1944 i tedeschi si presentarono a casa Perlow, istruiti da un vicino di casa che, nonostante la comune appartenenza al popolo ebraico, decise di denunciare la famiglia della casa accanto. Quella stessa notte 8 componenti della famiglia Perlow vennero deportati ad Auschwitz. Il piccolo Sergio sarà costretto a sopravvivere con le due cuginette Andra e Tatiana Bucci all‟interno di una baracca interamente occupata dai bambini. Forse per le fattezze esteriori, forse per il simpatico duo rappresentato dalle due bambine quasi identiche, una delle kapò si affezionò alle sorelle Bucci, che sopravvissero anche grazie all’aiuto della donna. Invece, fu una semplice domanda a condannare il piccolo Sergio, una domanda a cui le cugine furono immuni solo grazie ai consigli della custode della baracca. Anche Sergio era stato avvisato da Andra, ma alla frase del dottore: ”chi vuole rivedere sua madre faccia un passo avanti” il piccolo non seppe trattenersi. Sergio, con altri 19 bambini, fu scelto per condurre esperimenti sulla tubercolosi e trasferito a Neuengamme, presso Amburgo. Per qualche settimana i bambini vissero un periodo di relativa tranquillità; poiché per la riuscita dell’esperimento si richiedeva che essi fossero in buone condizioni di salute. Dal 9 gennaio del 1945 iniziarono gli esperimenti: ai bambini furono inoculati a più riprese i bacilli tubercolari, causando la rapida diffusione della malattia. Ai primi di marzo i bambini, ammalati e febbricitanti, vennero operati per asportare loro i linfonodi, localizzati nella zona ascellare, che secondo le teorie del medico avrebbero dovuto produrre gli anticorpi contro la tubercolosi. Gli esperimenti, più volte ripetuti, non dettero alcun esito. Alla fine dei test, nel 1945, gli Alleati erano ormai alle porte e il 20 aprile 1945 arrivò l’ordine da Berlino di far sparire ogni traccia del laboratorio e, dopo aver ucciso i custodi e gli infermieri, a Sergio e agli altri venne iniettata una dose di morfina e vennero quindi impiccati alle pareti della stanza.

Mi chiamo Sergio e ero un bambino. Cara mamma Gisella, ero il tuo bambino. Spero che tu non ti sia mai dimenticata di niente, di tutte le volte che mi hai abbracciato, di tutte le volte che mi hai baciato sulla guancia, di tutte le volte che mi hai preso in braccio per consolarmi quando fuori c’era il temporale. Sono state poche in confronto a quante avresti voluto, lo so, ma tu mi hai sempre protetto allorché ne ho avuto bisogno, te ne sei fatta una missione di vita che hai sempre perseguito, fino a quella sera. Devo rivelarti una cosa mamma: ancora mi auguro che tu non ti sia affezionata ad altri. So che non dovrei pensarlo, so che dovrei desiderare la tua felicità, ma non ce la faccio a immaginare te che abbracci un altro bambino; so che è un pensiero egoistico, ma ho pur sempre sette anni, e per sempre li avrò. Quella sera è stata l’ultima di noi due, della nostra vita tranquilla, cullati dalle bugie degli altri, degli amici e dei conoscenti, di tutti quelli che ci dicevano di non preoccuparci, che papà era cristiano e che per questo eravamo intoccabili. Ma in fondo io che ne potevo sapere? Solo ora ho capito, ora che è troppo tardi. Dicono che la memoria di un bambino sia labile, ma io mi ricordo ancora tutto, sai mamma? Mi ricordo degli uomini in divisa scura che in un primo momento mi parevano innocui, mi ricordo del viaggio che mi dicesti essere una vacanza, mi ricordo di come tutta la mia felicità si trasformasse repentinamente in una inesorabile, asfittica apatia: salimmo sul treno, fuori pioveva, ma quella volta tu non mi abbracciasti; a dire la verità nemmeno mi tenesti la mano, perché eri troppo occupata a cercarmi un pezzo di pane o qualunque cosa da mangiare lungo il tragitto verso una meta che non conoscevamo. In fondo, tuttavia, a me non importava: i miei sogni colorati li avevo lasciati a Fiume, ai campi d’erba del parco del Teatro, al salotto di casa, alla cameretta vicino a quella di Andra e Tatiana. Da quel momento tutto è diventato in bianco e nero, soprattutto in nero: tu non c’eri più e non riuscivo a pensare ad altro; non mi era rimasto niente della mia vecchia vita, solo le mie cuginette, vicine a me, spaventate come me. Ho fatto il bravo, sai? Sono stato educato, calmo, e mi sono preso cura di Andra e Tati. Pensavo che un giorno saresti tornata, ma sono sempre rimasto solo. Poi è successo che mi sono abituato persino a quella vita, ai giacigli di legno, alla baracca, finanche alla fame, lei sì, compagna fedele di ogni mio giorno. Non ci rendevamo conto di quanto il campo fosse diventato parte di noi, e col campo anche l’orrore dei corpi bianchi nella baracca vicina o le esalazioni acri del fumo che fuoriusciva dai grandi camini. La mia vita sembrava destinata a non cambiare mai, fino a quella mattina, quando il dottore ci mise in linea; sembrava un normale controllo finché lui non ci rivolse quel semplice, fatidico invito che mi illuminò gli occhi: “chi vuole rivedere la sua mamma faccia un passo avanti”. Tatiana mi aveva detto di stare fermo, che era solo un imbroglio; ma io non seppi contenermi dalla gioia: finalmente eri tornata da me, potevo sentire ancora una volta i tuoi abbracci, la tua voce, potevo vederti, mamma, tornare ad essere tuo! Eravamo in venti a intraprendere questo meraviglioso viaggio verso una nuova-vecchia vita, che poi, te lo dico sinceramente, risultò diversa, molto diversa da quella di prima. Tu non c’eri; le nostre giornate in quello strano posto erano scandite da punture colorate, che i medici e le infermiere ci iniettavano con precisa freddezza. Eppure non ero malato. Così ho supposto che servissero per prepararmi a rivederti, e che la malata fossi tu, mamma. I dottori parlavano spesso vicino ai nostri letti e altrettanto spesso nominavano una cosa chiamata “trubecolosi”, o forse era “turbiecolosi”… scommetto che però non è importante. Lì stavo bene, non ci trattavano come al campo: a parte lo stordimento dovuto alla loro cura; erano gentili con noi, almeno fino agli ultimi giorni, quando fummo di nuovo trasferiti in una strana casa che sembrava una scuola e cominciarono a sparire sia i medici che le infermiere. A iniettarmi l’ultima puntura venne un uomo che non indossava il camice, ma quell’odiata divisa che aveva rappresentato l’inizio della fine. Fu un attimo e il tutto divenne nulla. Mamma cara, anche se non siamo riusciti a rivederci ancora una volta, sappi che sarò con te per sempre! Mi raccomando, non farti una colpa per quel che ho passato, non è tuo l’errore. Il motivo che mi ha portato alla morte è quello che adesso mi rende più orgoglioso di averla vissuta, la mia breve vita: essere quel che sono, avere avuto te come madre, Andra e Tatiana come cugine e quella dei Perlow come famiglia…una famiglia che voleva essere come le altre, che era come le altre, ma che la follia umana ha reso esemplare e unica.

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Aleksandr

La Storia: Nel periodo antecedente alla prima guerra mondiale, l’Impero ottomano stava vivendo una fase di forte instabilità, dovuta anche ai vari tentativi di colpo di Stato portati avanti dai «Giovani Turchi», mossi da un nazionalismo intransigente. L’odio nei confronti della minoranza armena fin dagli ultimi anni dell’Ottocento si era tradotto in esplicite violenze, ma fu il conflitto a far precipitare la situazione: si supponeva che gli armeni fossero spie dei russi, di cui i turchi erano nemici e proprio per questo venne deciso di eliminarli. Le modalità di questo sterminio furono consequenziali. Si partì con l’eliminazione della componente colta della nazione: il 24 Aprile 1915 vennero arrestati gli esponenti dell’élite culturale armena e, così, intellettuali, deputati, prelati, commercianti, professionisti saranno deportati all’interno dell’Anatolia e massacrati. In seguito si procederà con l’eliminazione della forza: gli armeni dai 18 ai 60 anni vennero chiamati alle armi a causa della guerra in atto(e, da bravi cittadini, si arruolarono). In seguito fu varato dai turchi un decreto che stabiliva il disarmo di tutti i militari armeni, che vennero costituiti in battaglioni e, a gruppi di 100, isolati e massacrati. Si passò poi alle donne, ai vecchi e ai bambini: furono in parte uccisi nei luoghi vicino al mare per mezzo dell’annegamento, ma lo sterminio diretto si applicò anche nelle zone in cui incombeva l’avanzata russa per il timore che alcuni si potessero salvare. Infine vennero eliminati i pochi uomini rimasti. In questo periodo vennero, poi, organizzate delle deportazioni forzate, che contribuirono all’eliminazione brutale di altre centinaia di migliaia di persone: con la scusa dello spostamento dalle zone di operazioni belliche, moltissimi deportati furono uccisi durante il cammino, mentre altri morirono per la fame e la stanchezza. In queste marce della morte si pensa che le persone coinvolte siano state circa 1.200.000. Vale la pena ricordare che le marce vennero organizzate anche con la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco in collegamento con l’esercito turco. In seguito altre centinaia di migliaia di armeni furono massacrati dalla milizia curda e dall’esercito turco. Malgrado le controversie storico-politiche, un ampio ventaglio di analisti concorda nel qualificare questo accadimento come il primo genocidio moderno, e soprattutto molte fonti occidentali enfatizzano la “scientifica” programmazione delle esecuzioni. Tale genocidio viene commemorato dagli armeni il 24 aprile.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di un bambino armeno che, dopo essere stato deportato con la sua famiglia, dovette partecipare a una di quelle che venivano chiamate le “marce della morte”. Questo bambino aveva 9 anni e il suo nome era Aleksandr. Viveva una vita tranquilla nella città di Adana, nella regione turca della Cilicia. Con lo scoppio della guerra tutto cambiò: suo padre dovette partire in un battaglione costituito essenzialmente da armeni e di lui Aleksandr e sua madre non seppero più nulla. La guerra era scoppiata da un anno quando, il 15 maggio 1915, le truppe turche entrarono in città, andarono di casa in casa dicendo a tutte le famiglie armene di preparare il minimo indispensabile per partire immediatamente; tra queste famiglie vi era anche quella di Aleksandr e di molti suoi amici, che come lui partirono senza sapere la meta. Dopo molti giorni di marcia arrivarono in un campo di prigionia, dove furono costretti a rimanere per molto tempo prima di partire per una nuova marcia, che sarà l’ultima. Prima di lasciare il campo, Aleksandr aveva dovuto assistere all’uccisione dell’amata nonna. I turchi costrinsero tutti i prigionieri ad uscire fuori per iniziare una nuova marcia; la traiettoria attraversava il caldo deserto, che fu raggiunto dopo un giorno di faticoso cammino. I prigionieri durante tutto il tragitto percorso non avevano mai ricevuto da mangiare, né avevano ricevuto acqua per dissetarsi. Durante questa estenuante marcia, Aleksandr si rese conto che da quel viaggio non sarebbe mai tornato; intorno lui i suoi amici stanchi, piegati per la fame cadevano a terra sfiniti e le persone che non riuscivano più a alzarsi venivano picchiate e uccise dai soldati. Dopo due giorni di marcia, affamato e assetato, Aleksandr morì di stenti in un luogo sperduto del deserto siriano.

Mi chiamo Aleksandr ed ero un bambino. Per l’esattezza, ero un bambino armeno di nove anni. Vivevo una vita tranquilla con la mia famiglia nella città di Adana, in Cilicia. Passavo le mie giornate insieme ai miei amici e molte ore le dedicavo allo studio. Mi piaceva assistere alle cerimonie fastose nella chiesa madre, anche se sapevo che correvamo dei rischi, perché già qualche anno prima, nel 1909, i turchi avevano preso d’assalto quel luogo, provocando delle vittime. Mi ricordo che era trascorso un anno dal matrimonio di mia sorella Arevig e per la santa Candelora spettava a me portarle la candela accesa dal fuoco santificato. Nonostante la guerra fosse cominciata da qualche mese, vennero accesi i falò e benedetti i ceri in ricordo della presentazione di Gesù al tempio. La candela doveva servire a liberare gli sposi dagli spiriti maligni: non sapevo che quegli spiriti erano ormai ovunque e nessun fuoco benedetto li avrebbe fermati. Uno di loro si era già preso mio padre, anche se noi non ne eravamo al corrente e continuavamo a crederlo al fronte. Durante i primi mesi di guerra ho sperimentato sulla mia pelle cosa voglia dire essere esclusi e emarginati. Non era più come prima: gli unici amici rimasti erano esclusivamente armeni e tutti gli altri erano spariti. Avevo anche provato a invitare qualcuno di loro a casa mia, per mangiare i khorovadz succulenti che preparava mia madre e che ci serviva col riso e le patate fritte. Niente. Era come se le ore, i giorni passati insieme non ci fossero mai stati, come se non mi avessero mai conosciuto, come se fossi già morto. Poi, in primavera, tutto precipitò. I turchi non ci volevano più sul loro suolo – che però era anche il nostro – e sospettavano che complottassimo con il nemico russo. In realtà, da tempo sapevo che ci odiavano perché diversi, perché cristiani e spesso anche facoltosi grazie alla nostra intraprendenza nel commercio. In quei tempi si rivendicavano le identità nazionali e quel gruppo di ufficiali, i Giovani Turchi, erano tra i più strenui difensori della purezza della razza turca, di cui noi eravamo “agente contaminante”. Questa storia che esistessero razze e, tra di esse, alcune dominatrici e altre sottomesse, circolava già da qualche anno in Europa, ma noi ci sentivamo in qualche modo al riparo da ogni rischio perché finché un problema non ci tocca da vicino non lo si reputa preoccupante. Sbagliavamo. Una notte di maggio fummo caricati sui furgoni e la nostra odissea iniziò non appena arrivammo al primo campo di prigionia: qui incominciammo a sentire i morsi della fame e a patire la sete, dato che le razioni di cibo e acqua erano scarsissime; la notte, poi, pativamo il freddo perché non avevamo coperte. A un certo punto i giorni e le notti hanno preso ad assomigliarsi e non sono più riuscito a capire da quanto tempo eravamo lì. Mia nonna era stata brutalmente uccisa da un soldato perché aveva osato rivolgergli la parola per elemosinare un po’ d’acqua. Molti, come lei, ci avevano lasciato, o perché sopraffatti dagli stenti o a causa della brutalità dei nostri aguzzini. Pregavo Noè perché di nuovo scendesse sulla terra a costruire un’arca per il suo popolo; sognavo di galleggiare su un mondo distrutto dalla potenza vendicatrice di Dio a causa della follia umana; mi pareva di svegliarmi sull’Ararat e di accogliere tra le mani la colomba della pace, della riconciliazione e del perdono. Poi accadde che ci fecero uscire dal campo per spostarci altrove. Dovevamo camminare nel deserto, camminare senza sosta, camminare senza pietà. Per la pista polverosa e arida delle vie carovaniere ci muovevamo come fantasmi derelitti, senza meta, senza scampo. Resistere significava prolungare l’agonia, ma mi sono reso conto che non è facile darla vinta alla morte, neanche quando si è solo il pallido ricordo di ciò che eravamo. Mi sono scoperto forte; più forte di quanto avessi creduto. Con le ultime forze del pensiero, poco prima di arrendermi del tutto, mi sono domandato il perché di tanta crudeltà, sicuro che saremmo stati vendicati o almeno ricordati per sempre come vittime innocenti della barbarie umana. Era una sicurezza malriposta, perché adesso so che per tanto, troppo tempo nessuno ha voluto ammettere l’orrore, assumersi la responsabilità della nostra fine. Che non aveva neanche un nome capace di significarla, nell’ottusa volontà protesa a eliminare un intero popolo dalla faccia della terra. Adesso so che l’indifferenza con cui l’Europa e il mondo hanno accolto la nostra morte – la morte di un milione e mezzo di persone – ha addirittura portato un altro assassino di popoli a sentirsi sicuro del suo abominevole piano di morte, perché, in fondo, “Wer redet noch heute von der Vernichtung der Armenier?”. Voi che siete venuti dopo, molto dopo, vi scongiuro, non dimenticatevi di parlarne.

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Dimitrie

La Storia: Porrajmos (“divoramento”) è il termine con il quale l’intellettuale rom Ian Hancock, a partire dagli anni „90, ha dato un nome allo sterminio di oltre mezzo milione di nomadi durante il nazifascismo e, soprattutto, la II Guerra mondiale. La stima è ufficiale e verosimilmente in difetto perché, per molti anni, questo sterminio pianificato ed effettuato per ragioni puramente razziali è stato rimosso. Esso viene assimilato alle persecuzioni di “asociali”, testimoni di Geova, politici, omosessuali, trascurando che i nazisti consideravano l’asocialità zingara non un comportamento deviante ma un dato genetico, dato che erano portatori del “Wandertrieb”, l‟impulso al nomadismo. La memoria del Porrajmos, in effetti, è rimossa e sfilacciata anche perché diversa da tutte le altre: è la memoria degli zingari, che tramandano la loro storia per via orale, che non hanno istituzioni, non hanno uno Stato che li difenda e che sono da sempre popoli dell‟esilio. Come gli ebrei, i sopravvissuti rom e sinti hanno ugualmente faticato a rievocare le atrocità che avevano vissuto, temendo ancor più di non essere creduti, visto il pregiudizio che pesa ancora oggi sulla loro attendibilità. Dal 1933, data dell’ascesa al potere del nazismo, il regime sviluppa una politica repressiva contro gli zingari in tre direzioni ascendenti: 1933–1937, si intensificano le misure vessatorie e di controllo; 1937–1940, si sviluppano rigorosi controlli contro la delinquenza, il vagabondaggio e l’asocialità; infine, 1940–1943, si estendono le leggi razziali anche verso gli zingari. Con il decreto Auschwitz del 16 dicembre 1942 promulgato da Himmler, tutti gli zingari del Reich, eccetto quei pochi che lavoravano nelle imprese belliche tedesche, furono deportati a Birkenau. All’arrivo nel campo gli zingari non venivano né smistati a seconda del sesso o dell’età né rasati a zero, ma venivano condotti tutti indistintamente nello Zigeunerlager, uno dei settori di Birkenau. Qui, una sorta di “campo nel campo”: non veniva effettuato l’appello mattutino ma solo quando lo ordinavano le SS. Gli zingari vivevano raggruppati per clan e le donne potevano partorire, uniche in tutta Auschwitz ad avere questo “privilegio”. Ciò nonostante, la notte del 2 agosto „44, 2.897 zingari tra uomini, donne e bambini trovarono la morte nel crematorio numero 5, quello più vicino allo Zigeunerlager, così definitivamente liquidato. A 67 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 2012, è stato inaugurato nel centro di Berlino un monumento alla memoria delle vittime dell’olocausto rom e sinti: si tratta di una fontana, a poche centinaia di metri dal Bundestag, circondata da pietre su cui sono incisi i nomi dei campi di concentramento dove sono stati uccisi uomini, donne e bambini delle comunità sinti e rom. Ai margini del monumento sono incisi i versi del componimento “Auschwitz” del poeta italiano di etnia rom Santino Spinelli.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Dimitrie Presler, nato a Dusseldorf nel 1936 da una famiglia rom. Dopo i primi mesi di vita di Dimitrie, la sua famiglia e l’intera comunità rom fu costretta ad andarsene per evitare l’arresto: da allora il viaggio divenne la dimensione della sua esistenza, un muoversi furtivo, a volte estenuante per le foreste tedesche. Nella Foresta Nera, vicino a Freiburg im Breisgau, erano tornati a praticare una vita simile a quella preistorica, ma almeno si sentivano al sicuro: gli uomini più forti si occupavano di procurare il cibo con la caccia e con la pesca nel torrente poco distante dall’accampamento, mentre le donne si occupavano dell’educazione dei bambini. Gli unici momenti in cui si tornava alla realtà si avevano quando furtivamente i ragazzi più giovani andavano nel paese vicino per procacciarsi piccoli attrezzi utili per le coltivazioni. Il clima era surreale poiché, anche se tutti sapevano che si stava svolgendo una caccia all‟uomo e da quattro anni si combatteva una guerra feroce, nessuno del gruppo sembrava dargli troppo peso. Un giorno travagliato di Luglio del 1944 l’illusione della salvezza precipitò: uno dei ragazzi venne visto addentrarsi nel bosco e un solerte cittadino tedesco chiamò le forze militari, che arrestarono indistintamente e deportarono tutte le persone che si erano sistemate in quel piccolo pezzo di paradiso nascosto. Il 2 Agosto del „44, ormai assiepati con tanti altri di loro nello Zigeunerlager di Auschwitz, anche Dimitrie e la sua famiglia si avviarono a diventare cenere.

Mi chiamo Dimitrie ed ero un bambino. Ero un bambino rom, ed ero venuto al mondo in un tempo sbagliato. Infatti ero nato in Germania – o meglio nel Terzo Reich millenario, come lo chiamavano i gaggi – nel 1936. Un anno disgraziato per tutti noi. Infatti, in quell’anno il dottor Hans Globke dichiarò che “gli zingari erano di sangue straniero” e nello stesso anno il ministero degli interni istituì a Berlino l’istituto di ricerca “Rassenhygienische und bevölkerunsgbiologische Forschungsstelle” (Istituto di ricerca sull’igiene razziale e la biologia della popolazione) diretto da Robert Ritter, uno psichiatra e neurologo di Tubinga. Questi, per le sue ricerche, si servì dell’“Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara” affiancato da Eva Justin, puericultrice diplomata che lo aiutò nei suoi studi sui bambini zingari prelevandoli dagli orfanotrofi. A pensarci meglio, nessuno prima di allora si era occupato così capillarmente di noi, imbastendo ipotesi pseudoscientifiche, pretendendo di classificarci e di giudicarci. Ovviamente per avere una giustificazione seria della nostra “colpa” e poterci punire eliminandoci. Qual era la nostra colpa? Quella di contaminare l’arianesimo da cui si voleva far discendere la razza padrona, dato che anche noi, popoli del vento, potevamo vantare le stesse origini. Ma noi non avevamo un Führer a difenderci, noi che non avevamo mai fatto parte di uno Stato, noi che eravamo popoli sradicati e liberi. Ero nato in un campo vicino a Dusseldorf, l’unico posto che io abbia mai potuto chiamare casa; ma lo vidi per pochissimo tempo dal momento che iniziò una caccia simile a quella delle storie che raccontava la mamma sulla memoria fragile della nostra gente. Di certo non era la prima volta che diventavamo oggetto di una persecuzione organizzata e ufficiale. E non sarebbe stata l’ultima. Nella mia breve vita mi sono convinto che gli altri, i gaggi, quelli che ci escludono, ci emarginano, ci segregano e alle volte ci ammazzano, non sopportino in noi l’affronto che rappresentiamo a tutto ciò che di saldo e di immutabile rassicura le loro monotone esistenze. Noi scardiniamo le fondamenta della loro millenaria civiltà: la nostra diversità radicale dimostra che è solo una costruzione storica; che le leggi sono convenzioni; le tradizioni abitudini. Quella volta fummo costretti a trasferirci nella Foresta Nera, nascosti come prede che tanti, troppi cacciatori cercano di stanare. Ma noi eravamo abituati a fuggire, a spostarci, a vivere all’aperto. Arrivai persino ad affezionarmi a quella vita da uomo antico e le radure della foresta mi parvero piazze di fiera, le grotte castelli incantati. Poi anche noi venimmo a sapere della guerra. Soprattutto venimmo a sapere che l’uomo dai baffetti aveva preso nuove iniziative contro di noi, «minoranza degenerata, asociale e criminale»: il dottor Ritter aveva proposto la nostra sterilizzazione forzata. Nominato nel 1941 direttore dell’Istituto di biologia criminale, aveva curato personalmente la redazione di 30.000 schede di Rom tedeschi su cui nella stragrande maggioranza scriveva la parola tedesca “evak” ovvero “evacuata”, eufemistica espressione per un viaggio che destinava i Rom ai lager in attesa di essere poi eliminati. Un maledetto giorno di Luglio del 1944 ci braccarono. Ci costrinsero a seguirli, giù al paese con la stazione ferroviaria, e lì ci caricarono come bestie da macello su un treno. Il viaggio mi pareva non dovesse mai finire: era d’estate e all’interno dei vagoni non si riusciva a respirare. Soprattutto a noi, abituati alla libertà degli spazi aperti, quella condizione pareva già un presagio terribile sul nostro destino. Poi arrivammo in un posto strano, tra soldati vestiti di nero e, soprattutto, fantasmi di uomini macilenti vestiti con una specie di pigiama a righe. A noi no, non ce lo fecero indossare. Ma ci rinchiusero comunque dentro una baracca. Il nostro – lo capimmo subito – era un trattamento particolare, in un primo tempo ci sentimmo addirittura dei privilegiati: non dovevamo subire la fatica estenuante dell’appello, le famiglie erano ancora unite, non partecipavamo ai gruppi di lavoro. Ma non eravamo affatto privilegiati: la totale mancanza di cibo e di cure mediche faceva sì che il campo fosse continuamente colpito da tremende epidemie, e il limite di capienza dello Zigeunerlager, come lo chiamavano, era stato ampiamente superato, così che sopravvivere era diventato una scommessa con la sorte. Già, la sorte era pronta a sorprenderci e lo fece più o meno un mese dopo, una notte dei primi di agosto, quando tutti noi superstiti venimmo costretti a uscire dalla baracca per recarci verso quelle strane ciminiere che eruttavano fumo acre senza sosta. Noi figli del vento non lo sapevamo, ma il vento ben presto ci avrebbe chiamato a sé e avrebbe danzato con noi per l’eternità. Finalmente noi stessi, finalmente liberi!

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Tepiltsin

La Storia: Nel 1500 la monarchia spagnola affidò ai conquistadores, i più noti dei quali furono Cortés e Pizarro, l’incarico di impadronirsi, con la forza e la violenza, delle nuove terre esplorate al di là dell’oceano Atlantico. Quasi due terzi della popolazione indigena scomparve nel giro di circa cinquant’anni dall’inizio della colonizzazione, tant’è che Carlo V decise di intervenire, modificando in parte le leggi che riguardavano il lavoro degli Indios; anche se gli effetti pratici di tali leggi furono esigui perché molto spesso non vennero applicate. Gli invasori praticarono stermini, stupri e costrinsero gli indigeni alla massacrante estrazione di oro, che si trovava solo setacciando l’acqua dei fiumi, e ai lavori forzati in stato di semi-schiavitù. La Spagna così guadagnò molto denaro dallo sfruttamento di tali risorse umane e naturali. Alcuni motivi del riuscito genocidio perpetrato ai danni delle popolazioni precolombiane furono la superiorità delle armi usate dagli spagnoli, l’uso in battaglia di animali sconosciuti agli indigeni e l’uccisione dei loro leader politici, che veniva interpretata come un segnale degli dei. J. G. de Sepúlveda, al quale si opponeva B. de Las Casas, giustificava la guerra contro i nativi, che definiva “humuncoli” (esseri inferiori rispetto alla razza umana), come un’opera propedeutica alla successiva evangelizzazione. Egli vide nei conquistadores degli angeli punitivi che sottomettevano gli “infedeli” per poi guidarli sulla retta via, ovvero quella della cristianità. Da annoverare infatti tra le cause della tragedia degli Indios c’è il senso di smarrimento dovuto all’annientamento della loro fede e delle loro tradizioni, che portò talvolta a suicidi di massa. Lo storico Nathan Wachtel, ne „La visione dei vinti“, ci descrive un’inchiesta nelle “Audiencias”, nella quale si domandava agli indios che cosa pensassero delle loro condizioni di vita. Essi rispondevano che dopo l’arrivo degli spagnoli il loro numero stava diminuendo e che le malattie aumentavano e indicavano come motivi del loro malessere la guerra, le epidemie, i trasferimenti forzati, il troppo lavoro e infine, bizzarramente, la libertà. L’olocausto dei nativi americani, come è stato definito da un altro storico, David E. Stannard, portò alla scomparsa della loro civiltà, che non fu soltanto l’effetto di una “mattanza” causata dalla crudeltà e dallo sfruttamento degli indios, ma fu la conseguenza della sovrapposizione violenta di una cultura profondamente diversa su un’altra.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Tepiltsin, bambino indio vittima di uno dei tanti massacri operati dai conquistadores spagnoli. Il villaggio azteco vicino a Tenochtitlan (attuale Città del Messico), dove lui viveva, fu improvvisamente preso d’assalto da un gruppo di conquistadores armati. La notte trovò gli abitanti impreparati a difendersi dai violenti invasori, che li obbligarono ad uscire dalle loro semplici abitazioni di legno e a mettersi in fila per poi essere legati come bestie. Il silenzio fu rotto da pianti di bambini, da grida di panico e di sofferenza di chi, cercando di scappare, veniva brutalmente trafitto dal ferro delle armi nemiche. I bambini più grandi vennero separati e allontanati dalle loro famiglie per essere poi sfruttati nella ricerca dei materiali preziosi negli stretti anfratti delle miniere d’argento. Erano destinati a lavorare di notte e di giorno senza ricevere adeguato nutrimento e a vivere in condizioni disagiate e prive di igiene, tanto che i più piccoli non riuscivano a sopravvivere a lungo. Uomini, donne con neonati e anziani vennero divisi e selezionati e chi non aveva i requisiti necessari per affrontare i duri lavori a cui avrebbero dovuto essere sottoposti i più resistenti era destinato a morire. Alcuni adulti del villaggio di Tepiltsin vennero fatti morire lentamente su bracieri, come animali, in mezzo a grida di dolore strazianti perché avevano tentato di resistere. Tepiltsin, che aveva solo cinque anni, fu tenuto in vita per alcuni mesi, costretto ad assistere alla lenta agonia dei propri genitori. Ma, ritenuto ancora troppo piccolo per lavorare nelle miniere, venne poi ucciso senza pietà.

Mi chiamo Tepiltsin ed ero un bambino. Voglio raccontare ciò che hanno fatto a me e al mio popolo quelli che avevamo scambiato come la scorta del dio Quetzalcoatl, padre della nostra civiltà, poi migrato a bordo di una nave con la promessa di tornare a guidare un giorno la nostra gente. Noi credevamo che fosse quello il giorno radioso del serpente d’argento dalle mille piume, che fosse quello il tempo della rinascita. Fu, invece, il tempo della nostra fine. Non erano di dèi quei volti bianchi coperti di luce metallica, ma di demoni che ci hanno portato via la casa, la dignità e la vita. Sì perché quando giunsero nella notte più oscura nel nostro villaggio vicino a Tenochtitlan, Tezcatlipoca in persona si manifestò in loro: molta gente cercava di scappare ma veniva raggiunta da quegli uomini di fuoco e uccisa dalle armi sconosciute che imbracciavano come giustizieri senza pietà. A volte, ed erano i più sfortunati, la morte sopraggiungeva per opera delle zanne fameliche dei cani da guerra, che divoravano le nostre carni incuranti delle grida. Ci hanno, poi, divisi in categorie: i bambini più grandi di me li hanno portati lontano dalle loro famiglie e a noi più piccoli ci hanno lasciato con le nostre mamme perché non eravamo utili nelle miniere. Ma non ci è andata meglio. I giorni sempre uguali, privi di cibo se non quello rappresentato dagli scarti dei nuovi tecutlis, ci condannavano a una inesorabile fine di stenti. Cercai anche di scappare, nonostante la fame e i miei miseri tre anni, ma poi, per punizione fui condotto davanti a dei bracieri sui quali, mi accorsi, arrostivano i corpi delle persone che appartenevano al mio popolo. Per ricacciare le lacrime ed essere forte, pensavo ad un mondo più bello, come mi aveva detto di fare la mamma, pensavo alla cioccolata che mi preparava sempre mia nonna, agli abbracci dei miei genitori e al gioco di totoloque che mi stava insegnando mio padre. Quando venivo trasportato da un luogo ad un altro, mi capitava di scorgere le lunghissime file delle persone che, fatte schiave dai “conquistadores”, come si nominarono arroganti, camminavano in fila indiana con enormi pesi sulle spalle ed erano legati tutti da una corda: una triste, dolorosa processione di disperati privati di ogni dignità. Ma il sentimento della pietà riuscivo a provarlo sempre meno: loro ci avevano tolto ogni sembianza umana, ero sempre stanco, non riuscivo mai a dormire, i miei sogni erano solo incubi che tante volte diventavano realtà, perché sì il terrore della realtà non aveva più limiti. Ogni settimana mio padre e mia madre ritornavano dai lavori forzati sempre più magri e privi di energie, tanto che stentavo a riconoscerli. Mio padre un giorno mi ha dato una specie di amuleto, una pietra che aveva trovato durante il lavoro nelle miniere, e mi ha detto di tenerlo stretto stretto a me nei momenti in cui avrei provato paura. Da allora mi sono sentito più forte, con qualcosa di speciale che dovevo custodire e che mi rendeva più coraggioso. Lo tenevo legato al collo, così che quel piccolo minerale fosse vicino al mio petto a proteggermi. Però un giorno la magia dell’amuleto si è spezzata: gli uomini di Tezcatlipoca, i nuovi signori delle nostre terre, hanno deciso che era giunta l’ora per eliminare uno ad uno noi bambini divenuti un inutile peso. Il mio pezzetto di coraggio pendeva dal collo fino al torace scheletrico; l’ho stretto nelle piccole mani ossute finché non mi hanno accolto le mani grandi e forti di Huitzilopochtli. Il mio corpo è finito sul fondo del Lago Texcoco, dove ancora mi trovo, anche se ogni tanto prendo la forma del colibrì del sud per una ricognizione sulle mie terre. Terre martoriate dall’insaziabile, famelica brama di potere dell’uomo venuto dal mare, che ha sempre preteso di sfruttare quanti di noi sono sopravvissuti e, nel tempo, non hanno smesso di servirlo. Hanno scoperto nuove ricchezze in queste mie terre, una specie di cioccolato fuso, nero come la notte e vischioso come il succo dell’agave, che si trova nelle profondità del suolo; ma non siamo stati noi ad arricchire, quanto la nazione a nord che adesso, a ripagarci del favore, costruisce muri e presidia i confini con l’esercito per impedirci di passare, di tentare di ricostruirci una vita. Il volo del colibrì non dura a lungo e, tutto sommato, è meglio così. “Cambia lo superficial, cambia también lo profundo, cambia el modo de pensar, cambia todo en este mundo” – canta la voce della mia terra martoriata – “Pero no cambia mi amor por mas lejos que me encuentre, ni el recuerdo ni el dolor de mi tierra y de mi gente”. No, il ricordo e il dolore della mia terra e della mia gente resta indelebile anche nelle profondità del Texcoco o nel vano volo di un uccello.

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Yankel

La Storia: Da tempo Hitler mirava a realizzare una strategia espansionistica verso i territori dell’Europa orientale: serviva lo spazio vitale, rappresentato esattamente dai territori dell’Unione Sovietica, in cui si sarebbe insediata la razza ariana dopo l’eliminazione delle razze inferiori. I territori in cui erano nate Cecoslovacchia e Polonia erano i territori persi dalla Germania in seguito alla sconfitta subita durante la prima guerra mondiale: la perdita di questi territori fu causa di un risentimento su cui i nazisti fecero leva nella loro ascesa al governo, e che sfociò appunto nell’ideologia razziale che collegava la rinascita tedesca alla riconquista del Lebensraum, lo spazio vitale sottratto alla Germania da queste popolazioni inferiori. L’attacco della Polonia seguiva infatti l’annessione dell’Austria (marzo 1938) e l’invasione della Cecoslovacchia (marzo 1939). Il 1 settembre 1939 l’esercito tedesco ruppe gli indugi e varcò la barriera del confine polacco, dando il via al secondo conflitto mondiale. Dietro questo evento si possono intravvedere le cause che spinsero Hitler a concepire il disegno di occupare l’intera Europa sotto le insegne del nazismo tedesco. La rottura degli equilibri del Trattato di Versailles fu infatti la conseguenza più diretta degli eventi della Prima guerra mondiale, e la politica espansionistica della Germania hitleriana cavalcò il malcontento della popolazione vessata dai debiti di guerra. Alle giustificazioni ideologiche sulla superiorità della razza ariana si sommarono le esigenze pratiche, come la necessità di manodopera a basso costo per la poderosa economia di guerra allestita dal nazismo.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Yankel, bambino ebreo di 11 anni, che dalla metà del settembre ’39, a Varsavia, guardava incredulo dalla finestra del suo appartamento in via Franciszkanska il volto della guerra, mentre suo padre Yehoshua e sua madre Sarah si stringevano a lui consapevoli che stavano assistendo all’inizio della fine. I tedeschi entrarono a Varsavia con tutta la forza e il fragore infernale di una terribile macchina di morte che nulla lasciava sperare. Furono innalzate le mura attorno alla città vecchia nell’ottobre del 1940 e quella che un tempo era il cuore vitale di Varsavia divenne il ghetto, dove, insieme a Yankel e alla sua famiglia, vennero internati migliaia di ebrei. Stava per iniziare “la soluzione finale della questione ebraica”. “Non ti preoccupare figliolo, è solo un campo di quarantena al fine di evitare il pericolo di epidemie…” così Yehoshua cercava di rassicurare il figlio, che mal celava la sua incredulità sull’efficacia di quella misura dopo aver sofferto la morte della sua sorellina di 3 anni per tifo. La vita lì era terribile: la fame, le malattie, i maltrattamenti decimarono progressivamente la popolazione e Yankel iniziò a capire che quella stella di David che indossava non serviva, come gli diceva la sua mamma, a far di lui un “bambino speciale”, bensì diverso, maledetto. Fu proprio la diversità razziale il motore della pulizia etnica che iniziò nel ghetto, tra le sue mura , accanto alle quali un giorno Yankel vide morire suo padre ucciso da una raffica di mitra per essersi incautamente avvicinato troppo al confine della libertà. Il giorno in cui fu costretto a salire su un treno insieme a sua madre, ai suoi parenti, ai suoi amici, a migliaia di persone, sembrava giunto il momento di un nuovo inizio, una nuova opportunità. “Andremo in un posto migliore, dove c’è lavoro, cibo, boschi, vita “ lo rassicurava la mamma. Ma quando mise piede al campo di Treblinka in quel caldo luglio del 1942, Sarah si inginocchiò ai suoi piedi, lo strinse a sé, gli pose la mano sulla testa come per dargli l’ultima benedizione e gli sussurrò “E’ la fine…sii forte…ci rivedremo presto”. Non smise mai di distogliere il suo sguardo dal piccolo Yankel mentre veniva trascinata via verso quegli edifici che emanavano un forte odore di monossido di carbonio. Lui rimase lì, immobile per tantissimi, interminabili minuti in attesa di capire il perché di tutto ciò e quale fosse il suo destino, finché scorse dei lunghi capelli biondi penzolare dal fondo di un carro. Riconobbe quella chioma che tante volte aveva accarezzato e non gli servì accertare di chi fosse quel corpo gettato in una lurida fossa comune. Con la sua mamma vide i cadaveri di tante altre persone di cui non conosceva volto, nome, storia, ma che sapeva in cuor suo essere tutti “speciali”. Yankel, sopraffatto dal dolore e dall’orrore, capì cos’era l’inferno ancor prima di entrare a far parte di quella schiera muta.

Mi chiamo Yankel ed ero un bambino.Sono nato a Varsavia 11 anni fa ed ero ebreo. Amavo la mia famiglia, amavo i miei amici, amavo la gente. Non odiavo nessuno. Ero un bambino felice, come tanti altri che mi assomigliavano. Nel quartiere dove vivevo con i miei genitori e la mia sorellina di 3 anni abitavano moltissimi ebrei e in sinagoga, di sabato, sembrava che fossimo tutti una grande famiglia. Ridevo, scherzavo, giocavo, studiavo, aiutavo il mio papà nel suo negozio di sartoria. Con i miei amici mi divertivo a calciare un pallone costruito con gli scarti di stoffa di mio padre. Ero agile, forte, veloce e nessuno riusciva a raggiungermi quando correvo lungo le vie della città. Amavo la vita. Non odiavo nessuno. Mia madre era una donna gentile, deliziosa e altruista. Adoravo stare ad ascoltarla ogni sera nel letto, quando prima di addormentarmi mi raccontava le storie di eroi che con coraggio salvano i più deboli dai malvagi. Adoravo il suo sguardo profondo, adoravo i suoi lunghi capelli biondi e il suo splendido sorriso, adoravo la sua calda voce, i suoi teneri baci e i suoi abbracci forti. Adoravo tutta lei e amavo il calore della famiglia, della mia famiglia ebrea che per Erev Chanukkah, al tramonto del 24 del mese di kislev, accendeva il chanukkià e dopo le preghiere non disdegnava di assaggiare le sufganiot. No, non odiavo nessuno. Il 1 settembre del 1939 è iniziata la guerra. Ho smesso di ridere, scherzare, giocare, studiare, calciare il pallone, correre libero per la città. Mio padre dovette chiudere la sartoria e fu costretto a lavorare in cambio di un po’ di cibo alla costruzione di un muro che racchiudeva il centro di Varsavia. Noi ebrei fummo rinchiusi in quel ghetto come topi senza via di scampo a cui i gatti davano la caccia. Vivevamo ormai in una stanza del ghetto piccolo, in mezzo alle valigie che custodivano quel che avanzava delle nostre vite. Non mi riparava, quella stanza, dagli orrori di fuori. Premevo le mie piccole mani sulle orecchie per cercare di non sentire il fragore delle bombe, il rumore degli spari, le urla della gente, le grida di dolore. Ma non riuscivo a non udire. Chiudevo gli occhi per non guardare le persone soffrire e morire. Ma non riuscivo a non vedere. Sentii l’ultimo respiro della mia sorellina, strappata dal tifo alla vita. Vidi il sangue di mio padre imbrattare quel muro dell’infamia. Pregavo il mio Dio. E non odiavo nessuno. Nel luglio del 1942 fui deportato nel campo di sterminio di Treblinka. Ci avevano detto che saremmo andati a lavorare per il Reich, ma il viaggio in treno durò troppo poco e quel cartello alla stazione sembrava un annuncio di diluvio. Eppure era caldo quando scesi sul marciapiede e dovetti attendere qualche minuto affinché i miei occhi, abituati al buio del vagone, riuscissero a tollerare tutta quella luce. Vidi tantissima gente scendere insieme a me: uomini, donne, bambini, anziani; una folla disciplinata, terrorizzata, confusa, silenziosa. Faceva molto caldo, ma niente mi riscaldò di più del forte, disperato, ultimo abbraccio di mia madre. Ricordo la sua voce tornata calma nel dirmi addio, ricordo il suo sorriso rassicurante per infondermi coraggio, ricordo il suo ultimo, profondo sguardo d’amore. E ricordo, poi, la matassa dei capelli biondi gettata sopra un carro, insieme ad altri volti spenti e a chiome di ogni colore, alla fine della Himmelfahrtstraße, la strada verso il cielo. Ti volevo bene mamma. Però anche allora non ho odiato nessuno. Hanno lacerato la mia anima, hanno violentato la mia innocenza, hanno straziato il mio corpo, hanno sopraffatto la mia speranza, hanno devastato la mia felicità, hanno cancellato il mio futuro, hanno scavato in me in cerca del mio odio….ma io non odiavo nessuno. Mi chiamo Yankel, ero un bambino, Treblinka è la mia tomba, la memoria di chi sa amare la mia vittoria.

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Georgia

La Storia: La Colonia della Virginia fu la prima colonia inglese nell’America del Nord, fondata nel 1607 da puritani in fuga dalle guerre di religione che facevano parte della “London Virginia Company”. Così nominata in onore della regina Elisabetta I d’Inghilterra, nota allora con il nome di “Regina Vergine”. La colonia divenne nel 1776, uno dei tredici Stati originari degli Stati Uniti. In un primo tempo fu popolata da schiavi a contratto e da schiavi africani. La Compagnia stabilì un sistema per incoraggiare i coloni a trasportarvi i dipendenti a contratto per lavorare: avrebbero ricevuto una certa quantità di terra in base alla quantità di schiavi portati in Virginia. Gli africani, che provenivano principalmente dal Golfo della Guinea, apparvero per la prima volta in Virginia nel 1619, portati dai corsari inglesi da una nave schiava spagnola che avevano intercettato. Generalmente, le condizioni di vita degli schiavi neri erano pessime, caratterizzate dalla brutalità dei padroni, da degrado e disumanità. Le frustate per insubordinazione, le esecuzioni e gli stupri erano all’ordine del giorno, fatta eccezione per quei pochi schiavi che erano specializzati in lavori di grande rilievo, come coloro che curavano i bianchi. Trattamenti migliori durante il lavoro erano riservati anche agli schiavi in affitto, poiché non di diretta proprietà dei coltivatori. L’istruzione veniva loro generalmente negata, per impedire l’emancipazione intellettuale, che avrebbe potuto instillare negli schiavi l’idea di fuga o di ribellione. Le cure mediche di solito erano somministrate dagli stessi schiavi, che avevano conoscenze mediche o possedevano nozioni di medicina tradizionale importata dall’Africa, oppure erano i famigliari dei padroni ad occuparsene. Le punizioni per gli schiavi insubordinati erano fisiche, come frustate, bruciature, mutilazioni, marchiatura a fuoco, detenzione e impiccagione. Talvolta le punizioni erano elargite senza un motivo preciso, ma solo per rinnovare la posizione dominante dei padroni. Gli schiavisti negli USA spesso abusavano sessualmente delle schiave e le donne che opponevano resistenza potevano venire uccise. L’abuso sessuale era parzialmente radicato nella cultura degli Stati del sud, nei quali la donna, indipendentemente dal fatto che fosse bianca o nera, era comunque considerata come proprietà o oggetto del maschio. Per preservare la “razza pura” erano severamente vietati rapporti sessuali tra donne bianche e uomini neri, ma ironicamente lo stesso divieto non era previsto per i rapporti tra uomini bianchi e donne nere.

Il contesto: Questa è la storia inventata ma verosimile di Georgia, figlia bastarda di Lydia, schiava nera in una piantagione di tabacco in Virginia. Lydia era a servizio del colono Chalonem Hightower da 10 anni quando questo la stuprò nel 1766, lasciandola incinta. A causa della legge del 1662 che si applicava solo agli schiavi, la figlia di Lydia, Georgia, nacque da schiava. Il padre, come era solito in quel periodo, non riconobbe la figlia, lasciandola comunque vivere insieme alla madre nella piantagione. Georgia, dato che era nata mulatta, non venne accettata né dalla società del padre né dagli altri schiavi nella piantagione. Quindi, oltre alla mancanza di cibo, al duro lavoro e alle terribili condizioni di vita, nella sua breve esistenza fu vittima di discriminazioni non solo dei bianchi, ma anche della sua stessa comunità. Una notte, poco dopo aver compiuto 14 anni, non sopportando più la sua situazione decise di scappare. Presa dall’impeto, iniziò a correre senza nessuna destinazione precisa, a perdifiato in mezzo ai campi. Un uomo del padrone, che si trovava ai limiti della coltivazione di tabacco, la vide e la catturò. Aspettò fino al sorgere del sole e, come era consuetudine, fece riunire gli schiavi e, per intimorirli e mostrare cosa sarebbe successo se fossero scappati, la uccise davanti agli occhi di tutti e soprattutto davanti agli occhi di sua madre.

Mi chiamo Georgia ed ero poco più che una bambina. Nell’istante in cui presi la decisione di scappare non sapevo cosa sarebbe successo, tutto ciò che mi bastava era la certezza che qualunque cosa sarebbe stata migliore della mia vita in quel momento. Avevo appena sette anni quando per la prima volta mi accorsi di quegli sguardi. Non erano tutti uguali. Negli occhi dei bianchi che osservavano i lavoratori c’erano solo biasimo e superiorità. Ma quando osservavano me il disprezzo sovrastava ogni altra emozione. Disprezzo verso il risultato di un’unione sbagliata, tra un uomo e un essere inferiore. Mia madre non è un essere inferiore, lei è la donna più forte che io abbia mai conosciuto, la mia roccia, la ragione per cui ho resistito così tanto, e invece questi individui la trattavano come un oggetto. Quell’uomo invece, che mi aveva creato approfittando di mia madre, non incontrava mai il mio sguardo, forse si sentiva in colpa e quindi in fondo alla sua anima qualcosa di buono c’era, o forse semplicemente non ero degna di essere guardata. Non mi interessava quello che pensavano i bianchi, ero consapevole che sarebbe stato inutile preoccuparsi della loro opinione; ma mia madre mi aveva spiegato che avrei sempre trovato un supporto nella nostra comunità, perché eravamo tutti sulla stessa barca. Per una volta mia madre non ebbe ragione. C’era qualcosa di sbagliato in me. Anche coloro che avrebbero dovuto essere la mia gente, il mio appoggio, non mi volevano. Nel mio sangue scorreva quello dei loro oppressori, come avrebbero potuto essermi vicini? Nemmeno io, al loro posto, mi sarei accettata. Tuttavia ogni mattina mi svegliavo con un peso sullo stomaco, sapendo che avrei dovuto alzarmi e lavorare circondata da persone che mi disprezzavano. Mamma si rammentava che ero nata in primavera, non aveva presente il giorno preciso, quindi avevamo scelto il giorno in cui sul Chionato, che noi chiamavano Albero della Neve per i sui boccioli bianchi, sarebbe sbocciato il primo fiore. Naturalmente non ci sarebbe stata una festa, semplicemente un “Tanti auguri” e un caloroso abbraccio prima di andare a letto, ma in quell’istante riuscivo persino a sperare in un futuro. Il ricordo dell’ultimo giorno della mia vita è perfettamente nitido nella mia mente: erano passati pochi giorni dal mio “compleanno”, avevo compiuto 14 anni, e il carico di lavoro era aumentato all’improvviso. Era calata la sera, avevo dato la buonanotte a mia madre, stremata dalla lunga giornata, e mi ero sdraiata sul letto. Non riuscivo a dormire. Mi veniva voglia di piangere. Non so cosa ci fosse di così speciale in quella sera, non so perché a un tratto mi sono alzata in piedi, iniziando a correre a perdifiato fuori dalla capanna, senza guardarmi indietro nemmeno per un instante. Non ce la facevo più. Non volevo sopportare più. Quello era l’unico modo per guadagnarsi un’opportunità di vita. Il confine della piantagione era lì davanti a me, ero a pochi passi dalla libertà quando sentii un rumore: un uomo stava guardando nella mia direzione, forse cercando di distinguere qualcosa nel buio della notte e si accorse di me. Presi a correre più forte, ma lui ormai mi aveva vista. Sentii qualcosa di duro colpirmi in testa e poi non vidi più nulla. Mi risvegliai quando ero appena sorto il sole, mi trovavo proprio davanti alle casupole, accanto a casa mia, in ginocchio, con le mani legate dietro la schiena. Tutti stavano iniziando ad andare a lavorare quando vennero chiamati a raccolta da colui che mi aveva colpito. In quel momento incontrai lo sguardo della mia comunità: questa volta non c’era disprezzo, i loro occhi erano pieni di compassione e tristezza. Fu in quel momento che compresi pienamente la situazione in cui mi trovavo. Le emozioni mi travolsero come un fiume in piena: prima il panico, poi la rabbia. Io non dovevo essere lì, non era giusto! Cosa avevo fatto di male per meritarmelo? Cosa avrei potuto fare per salvarmi? Tutto ciò a cui riuscivo a pensare era ciò che mi sarei persa di lì a poco: anche in una capanna miserabile, anche in un mondo che considerava quelli come me schiavi privi di diritti e li sfruttava come bestie da soma la vita resta sempre il bene più grande. Scorsi mia madre e decisi di chiudere gli occhi; non sopportavo di specchiarmi nella sua angoscia. Ancora oggi mi chiedo come mai una nazione che ha per simbolo una donna che rappresenta la libertà non riconosca la contraddizione di chi a quella libertà non ha avuto accesso, pur appartenendo all’umanità. Certo, rispetto a quando io brevemente vissi le cose sono cambiate; ma le radici dell’odio, del sospetto, del pregiudizio non sono estirpate neanche adesso. Forse non lo saranno mai.

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Nengi

La Storia: “Gli Zingari – strano popolo! Errante, disperso, oppresso, maledetto, ribelle alle leggi e alla civiltà, vissuto senza mescolarsi in mezzo a noi (…)”, così inizia il libro di Adriano Colocci dedicato alla storia del popolo errante. In effetti, spesso si crede che i “figli del vento” vivano in massima libertà: senza casa, senza lavori particolari, senza nessuna legge che ne regolamenti la vita. In realtà, gli zingari hanno un codice comportamentale molto rigido ed una legge orale (non avendo scrittura) tramandati da padre in figlio attraverso i secoli. La legge zingara è fondata sulla reciprocità e la solidarietà tra i membri: questi sono obbligati ad osservare la legge se non vogliono diventare devianti della comunità. La popolazione è portatrice di molti valori: il centro dell’universo è l’uomo perciò l’amicizia, la sacralità della vita, l’amore della natura, il senso di solidarietà, il rispetto per l’anziano o il disabili ne improntano l’operato. Questo popolo per secoli è stato vittima di persecuzioni e di violenze e ancora oggi continuano a verificarsi casi di ordinario razzismo: un logorante itinerario di sopraffazioni, di arbitrio, di violazione dei propri diritti di uomini. La gente continua ad accusarli di essere ladri, portatori di malattie, rapitori di bambini, in una falsa lettura della diversità che genera sospetto, odio e, inesorabilmente, anche atti criminali. Sono pochi gli italiani che sanno che la maggior parte di loro sono ormai diventati stanziali. Sono pochi quelli che sanno che la metà dei Rom nel nostro Paese sono cittadini italiani. La situazione crescente di sentimento anti-rom ha portato persino l’Unione europea a istituire una commissione per accertare le condizioni dei rom romeni in Italia, arrivando a questa conclusione: “La visita ha permesso di accertare la tensione sociale e il clima che caratterizza attualmente il contesto italiano in merito alla questione dei nomadi. Un senso di disagio e di insicurezza sembra propagarsi nella vita quotidiana dei cittadini italiani e stranieri. Si è registrato un aumento degli episodi di xenofobia, alcuni dei quali caratterizzati da una violenza senza precedenti.” In Italia, in effetti, ancora oggi molti leader politici nazionali e locali hanno fatto e continuano a fare ampio uso di retorica anti rom, fomentando un irrazionale sentimento di ostilità nei loro confronti piuttosto che impegnarsi fattivamente per affrontare con serietà e competenza i problemi che una pratica di secolare pregiudizio ha generato.

Il contesto: questa è la storia vera di Nengi, bambino rom di 4 anni, che nella notte di San Lorenzo del 2007 insieme ad altri tre piccoli viene trovato morto in un incendio sviluppatosi nella baracca isolata in cui stavano dormendo, sotto un cavalcavia nei pressi di Livorno. Le piccole vittime sono tre maschi e una femmina e di Nengi si sa che era sordomuto. Presumibilmente, le cause della morte sono da far risalire a un incidente dovuto alla presenza di una stufa all’interno del piccolo ambiente, per quanto si siano rincorse voci che coinvolgevano persone esterne, ipotizzando perciò un omicidio e non un incidente. Si racconta, infatti, che pochi giorni prima tra i livornesi e rumeni fosse avvenuta una violenta discussione, e il gesto potrebbe essere una sorta di vendetta. Difatti, il nucleo famigliare si era stabilito sotto il cavalcavia dopo le proteste degli abitanti della città. Quella tragica sera i genitori si erano allontanati dalla capanna per salutare alcuni parenti e, anche per questo, sono poi stati accusati di aver lasciato i figli incustoditi, vittime della sorte o accidentale o intenzionale che li ha condotti alla morte. Nengi e i suoi fratelli e sorelle, non hanno avuto il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo, poiché le fiamme hanno avvolto l’abitazione e in poco tempo hanno portato via ogni speranza di salvezza. Dopo l’intervento delle autorità i genitori sono stati accusati di abbandono e arrestati. Nei giorni successivi alla tragedia ha preso il sopravvento l’intenzione di esprimere opinioni negative sui rom, dando libero sfogo per lo più a frasi alimentate da odio e ostilità per pregiudizi e stereotipi ormai secolari, frutto anche della costruzione e della narrazione mediatica (i media locali non dimostrarono grande capacità di uscire dall’uniformità del racconto). Nella lettera di Nengi abbiamo supposto che la responsabilità dell’accaduto fosse da imputare a un raid compiuto da esterni alla comunità; ma anche se si fosse trattato di un incidente, il razzismo di cui da sempre sono vittime le popolazioni dei cosiddetti “zingari”, la loro ghettizzazione nei campi, la marginalizzazione che pesa sul loro destino inducono a sostenere condizioni di vita disumane, fanno proliferare miseria, emarginazione, criminalità e, alle volte, determinano casi di violenza del tutto evitabili in altri contesti.

Mi chiamo Nengi ed ero un bambino. Non so molto bene perché ho deciso di raccontare la mia breve storia, ma sento di doverlo fare: non credo di volerla tramandare o di cercare di evitare che si ripeta, credo di voler solo rappresentare la perfidia, quella cosa incomprensibile che a un certo punto ha prodotto l’inferno e che è stata generata da esseri umani come me per annientare me e i mie fratelli, che evidentemente a quella gente non sembravamo della stessa specie. Certo che non siamo uguali uguali: io, per esempio, non parlo né sento, mia sorella ha i capelli biondi e gli occhi azzurri, mio fratello non ama il calcio. Ma, ecco, siamo diversi pur rimanendo uguali, pur rimanendo uomini. O forse no. Allora, undici anni fa alcune persone che non conoscevo mi hanno tolto la possibilità di crescere e di darmi delle risposte proprio perché troppo diverso. Ero piccolo e tante cose non le capivo, in realtà capivo veramente poco: non sentivo i rumori e neanche le voci, non riuscivo a parlare, le parole rimanevano sempre e solo nella mia testa e quindi mi potevo affidare solo ai miei occhi. Ci eravamo appena trasferiti da una piazza non lontano da lì sotto quel ponte; mi divertiva pensare di essere una famiglia di troll puzzolenti e coperti di ciuffi d’erba. Quel giorno, come facevo da quando avevo imparato di nascosto a leggere i nomi e i numeri grandi sul calendario un po’ rotto di mio padre, sapevo che era il 10 Agosto. Forse un giorno come tutti gli altri, passato in fretta osservando il paesaggio e dormendo, secondo la mamma, un po’ troppo. Dopo cena i miei genitori sono usciti di casa per andare non so dove e sono rimasto con le mie sorelle e mio fratello e mentre loro hanno iniziato a giocare con dei cubetti di legno, io ho sbirciato da una fessura cosa c’era fuori: non troppa luce, gli alberi mossi dal vento e qualche persona che si divertiva con delle bottiglie di vetro. Sono passati pochi secondi e quelle stesse persone hanno lanciato le bottiglie che sono diventate rosse e arancioni, avvolte dal fuoco che a poco a poco si stava avvicinando alla nostra kampina. Non ho avuto tempo di riflettere perché subito qualcosa si è mosso ed è caduto prendendo fuoco. Ero confuso e non capivo perché quelli là avessero fatto una cosa simile, ho pensato che forse era stato solo un incidente e allora mi sono rivolto di nuovo verso la fessura, ma loro erano ancora lì, lontani, mentre ridevano talmente tanto che mi è sembrato di sentirli. Mia sorella maggiore mi ha tirato per la maglia verso un angolo con gli altri e ci ha abbracciati tutti. Io ho sentito tanto caldo e ho provato a capire cosa stesse succedendo, ma ero coperto dalla mia sorellona e non sentivo niente, l’unica cosa che vedevo erano le facce dei miei fratelli coperte di lacrime di terrore. Non capivo, ma a un certo punto paradossalmente tutto quel fuoco mi fece venire freddo. Da sotto un braccio, non so bene di chi, ho visto le fiamme grandi, rosse, aggressive e terrificanti: non ho mai visto niente di più spaventoso e per un momento ho desiderato anche di non poter vedere. In quell’istante ho sentito, o almeno mi è sembrato di sentire ogni più piccolo suono: il fuoco che scoppiettava, gli oggetti che cadevano, le urla dei miei fratelli, le parole sussurrate di mia sorella e addirittura le piccole lacrime che bagnavano il pavimento. Dopo non so dirvi cosa sia successo, so solo che ho sognato, ho sognato tutto ciò che sarei potuto diventare. Ho sognato di sentire i rumori, di parlare, di andare a scuola, di avere degli amici, di studiare, di prendere un brutto voto, di giocare a bowling, di piangere per qualcosa di stupido. E ancora ho sognato di diventare grande, di sposare una donna buona come la mamma, di diventare un parrucchiere e lavorare sodo come il papà. Ho sognato di volare, verso non so dove e mi sono sentito leggero, eppure pieno di rabbia per quelle persone malvage che mi hanno rubato una vita intera, che insieme a me l’hanno rubata ai miei fratelli e alle mie sorelle.

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